Nell’ultimo decennio in Europa l’incidenza del tumore alla prostata è raddoppiato, passando da 100 a 200 nuovi casi ogni 100.000 abitanti per anno. All’origine un mix di fattori genetici e ambientali: la maggiore incidenza registrata negli Stati Uniti e nei Paesi Scandinavi e quella inferiore di Cina, Giappone e Vietnam danno ragione dell’ereditarietà della patologia. A cui si aggiunge però quello che gli urologi osservano quotidianamente: “Che quando un cinese, un giapponese o un vietnamita, si trasferisce negli Usa, il rischio di ammalarsi raddoppia, sebbene rimanga sempre nettamente inferiore a quello che corre uno statunitense nato e cresciuto in America”, come ha spiegato Michele Pavone Macaluso, direttore della Scuola internazionale di Urologia del Centro di cultura scientifica “Ettore Majorana”. In questo complesso di fattori l’alimentazione sembra giocare un ruolo non trascurabile: “la dieta mediterranea ricca di pomodori, è l’ideale”, afferma l’urologo. Esso infatti contiene una sostanza benefica e protettiva nei confronti della prostata: il licopene, che conserva le sue proprietà anche dopo la cottura. Va bene, dunque, anche il tradizionale sugo per condire gli spaghetti. Un analogo effetto è svolto dalla soia grazie alla presenza di fitoestrogeni.Ma se sul fronte della prevenzione primaria, quella legata agli stili di vita, nuove conoscenze permettono di poter consigliare i pazienti, su quello della prevenzione secondaria le cose non vanno così bene. Nonostante i progressi della ricerca scientifica, infatti, manca ancora un chiaro indicatore per diagnosticare precocemente questo tipo di tumore: il “PSA”, il marker usato in tutto il mondo, “non è molto affidabile”, dice Pavone Macaluso: “a volte risulta normale in pazienti affetti da tumore prostatico e alterato invece nei casi di ipertrofia prostatica benigna o prostatite (infiammazione della ghiandola)”. Pertanto l’unica certezza può essere fornita da un esame invasivo: la biopsia, che consiste nell’asportazione di un piccolo frammento di tessuto.Le possibili pesanti ripercussioni negative che possono avere sul paziente gli interventi di asportazione della prostata – nell’80 per cento dei casi si compromette gravemente l’attività sessuale e nel 30 per cento si provoca una incontinenza urinaria permanente – hanno spinto gli urologi a rivedere come e quando intervenire chirurgicamente. E anche in questo caso non mancano dubbi e discussioni. Durante l’assise scientifica di Erice, un urologo italoamericano, Peter Scardino dello “Sloan Kettering Memorial Hospital” di New York, ha presentato una tecnica chirurgica sperimentale che potrebbe ridare speranza a quanti – specialmente se ancora relativamente giovani – temono di perdere con l’intervento la funzionalità sessuale: si tratta dell’autotrapianto del nervo surale che viene prelevato dalla gamba del paziente e impiantato nella regione prostatica. Scardino ha assicurato il successo in circa il 40 – 45 per cento dei casi. La riuscita del trapianto dipende, naturalmente, anche dal grado di estensione del tumore. Purtroppo oltre ai rischi di portarsi dietro menomazioni significative, che hanno anche gravi ripercussioni psicologiche, non sempre gli interventi di asportazione del prostata sradicano il tumore: in circa il 25 per cento dei casi, infatti, la guarigione non è totale e la patologia si ripresenta. Tuttavia, secondo i più recenti dati internazionali, nei casi di recidive la sopravvivenza oscilla tra i 12 ed i 15 anni. Per questo l’orientamento degli urologi americani – e anche quelli europei, sostanzialmente sono d’accordo – è quello di non sottoporre ad alcuna terapia ormonale i pazienti operati e non guariti completamente. “La terapia ormonale”, spiega Pavone Macaluso, “può dare buoni risultati, ma gli effetti collaterali, anche pesanti, di una terapia ormonale che duri da 12 a 15 anni (l’aspettativa cioè di sopravvivenza) ha effetti devastanti sull’organismo in quando provoca anemia, osteoporosi, perdita della massa muscolare e depressione”. Studi clinici hanno poi dimostrato che, in ogni caso, le terapie ormonali nelle recidive non allungano le aspettative di sopravvivenza.”L’affidabilità parziale dell’esame del ‘PSA’, i gravi effetti collaterali derivanti dall’intervento di asportazione della prostata, come pure le conseguenze negative della terapia ormonale in caso di recidive”, conclude Pavone Macaluso, “devono spingere gli urologi ad avere un dialogo direttamente con il paziente, spiegando, caso per caso, quelli che sono i pro e quelli che sono i contro di un intervento chirurgico: del resto il consenso informato – tanti ne parlano e pochi lo applicano – prevede proprio il coinvolgimento del paziente nelle scelte terapeutiche”.