Milioni di tonnellate di plastica. Otto per l’esattezza. Sono quelli che ogni anno finiscono nei nostri oceani e dei quali soltanto ottomila – un decimo ‒ vengono smaltiti grazie a costosi sforzi. Ma al di là delle stime quantitative, le strade – o meglio le “rotte” ‒ che questi scarti seguono una volta riversati nelle acque sono a lungo rimaste ignote. Secondo due diversi studi dell’International Pacific Research Center (IPRC) dell’Università delle Hawaii, il moto delle correnti oceaniche degrada lentamente i detriti plastici e li trascina fino a formare le tipiche “isole di rifiuti”, che ormai da anni popolano l’idrosfera. Non è tutto: in alcuni casi i residui possono trasportare specie marine in zone distanti dalle loro aree di origine, con enormi danni per l’ecosistema locale e, soprattutto, globale. A finanziare le ricerche è stata l’azienda bolognese Bio-On, impegnata nella produzione di una plastica innovativa totalmente biodegradabile, che potrebbe rispondere alla sempre più evidente emergenza in fatto di ecosostenibilità.
Il primo studio condotto dagli oceanografi Nikolai Maximenko e Jan Hafner dell’IPRC ha messo a punto un modello di fluttuazione e galleggiamento con l’obiettivo di simulare i tragitti seguiti dai detriti marini. Apparecchiature di rilevazione simili a boe galleggianti hanno poi vagato in balia delle acque per anni e i loro percorsi sono stati attentamente tracciati fino alle grandi “isole di rifiuti”: le due principali si trovano nell’Oceano Pacifico, proprio tra le Hawaii e le coste occidentali americane. In questo rimescolamento oceanico di calore e sostanze chimiche, inoltre, gli scarti vengono degradati al punto da formare una “zuppa di plastica” irresistibile per la fauna marina di pesci e uccelli, che così ne viene irrimediabilmente danneggiata. Lo studio dà importanti risposte, ma di certo non esaurisce l’argomento. Altre ipotesi degli esperti sul destino dei detriti plastici nelle acque ‒ quali la disgregazione in nanoparticelle, il deposito sui fondali o l’aggregazione al ghiaccio artico – richiederanno nuove ricerche.
Gli stessi scienziati dell’Università delle Hawaii hanno condotto un altro studio, i cui dati sono stati presentati alla NASA – partendo dal tragico evento dello tsunami che nel marzo 2011 colpì il Giappone. Delle barche smosse dalle coste orientali dell’isola, a distanza di anni, nove su dieci sono state erose dalle correnti, mentre in rari casi alcune grandi imbarcazioni continuano tutt’oggi il proprio percorso. È l’eventualità potenzialmente più disastrosa: le barche o i grandi detriti ancora integri che circolano per gli oceani fungono da vettori di specie marine, che partendo dal proprio habitat possono arrivare a invadere altri ecosistemi. Lo studio ha rilevato più di mille specie giapponesi ‒ tra molluschi, stelle marine, mitili e molte altre ancora – lungo le coste dell’Oregon, a quasi 9mila chilometri dall’isola nipponica.
Sono 300 i milioni di tonnellate di plastica prodotti ogni anno nel mondo, e si tratta di numeri destinati ad alzarsi velocemente. Un materiale economico, i cui danni ecologici però hanno costi elevatissimi. Per trovare una soluzione, allo studio ci sono da tempo plastiche ecosostenibili. L’ultima proposta è un tipo di plastica da poco entrata sul mercato, non solo riducibile in compost ma anche biodegradabile al 100% in natura (compostabile e biodegradabile sono infatti due concetti diversi). L’azienda Bio-On, che ha finanziato le ricerche condotte alle Hawaii, è infatti riuscita a ottenere da detriti agricoli una bioplastica che nell’arco di sessanta giorni viene completamente degradata in terra o acqua. “Con questa iniziativa vorremmo dare il via ad una categoria aziendale che in futuro potrebbe cambiare le cose – dice Marco Astorri, presidente e Ceo di Bio-On – arrivando a sostituire la plastica usata oggi con un materiale più ecosostenibile, che potrebbe risolvere il problema della plastisfera”, ovvero quell’ecosistema galleggiante e nocivo fatto di plastica e microrganismi.
Al momento l’azienda sovvenziona anche un progetto triennale in corso, realizzato in collaborazione tra IPRC e NASA, che potrà fornire nuove risposte in merito alle “rotte” della plastica nelle acque del globo. E promette di portare qui in Europa, entro il prossimo anno, gli strumenti utilizzati alle Hawaii per condurre nuove ricerche oceanografiche.
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