Antonio Espostio e Luigia Melillo (a cura di)
Carta straccia. Economia dei diritti sospesi
Ad est dell’equatore 2011, pp. 224, 12 euro
I diritti sono oggetti sociali – per dirla alla John Searle. Non esistono indipendentemente da noi: un matrimonio non è che un pezzo di carta, proprio come una costituzione o una legge per la tutela del lavoro o dell’ambiente. Carta straccia, insomma, a meno che non vi sia una volontà diffusa e condivisa per farli vivere. Ovviamente c’è anche un altro aspetto: alcuni diritti non sono nemmeno tracciati nero su bianco e questo rende lo scenario ancora più drammatico.
Proprio Carta Straccia si intitola una raccolta di vissuti e testimonianze di molti diritti sospesi. I racconti che lo compongono percorrono e denunciano una strada lastricata di assenza di diritti e di indifferenza. Di ingiustizie che fanno rabbrividire soltanto a leggerle, figuriamoci che cosa significa esserne il protagonista. La mentalità e la cultura sono un punto cruciale da cambiare, caratterizzate da un paradosso – come sottolinea Luigia Melillo nell’introduzione: da un lato il rifiuto della diversità e dell’alterità; dall’altro la cronicizzazione dell’emergenza, in un gioco perverso in cui si tracciano dei confini per la “normalità” e si decide chi deve esserne escluso in modo arbitrario e ingiusto. Le istituzioni sono assenti e la politica appare muta: il risultato è un campionario umano di sofferenza e soprusi. Storie umane radicate in Campania ma esemplari e apolidi.
Ed ecco che le strutture che hanno sostituito il manicomio, a volte cambiando solo il nome, sono dei luoghi di disumanizzazione, processo che comincia con il toglierti i vestiti e finisce spesso con il legarti a un letto di contenzione con la scusa di volerti proteggere. Per le storie a lieto fine come quella di Romualdo che oggi vive in una casa-comunità, raccontata da Antonio Esposito, ce ne sono migliaia di banale orrore: anziani, persone non autosufficienti o con problemi psichici imbottite di farmaci e trattati come pezzi di corpo in una catena di montaggio fatta di umiliazione e di violazione di tutti i diritti che esistono. Sarà per questo che quando si legge la testimonianza di Federico su Dachau non si nota molta differenza di trattamento e di considerazione (Paola Perretta e Simmaco Perillo). C’è forse tanta differenza tra un campo di concentramento e quanto accaduto a Francesco Mastrogiovanni, morto per edema polmonare dopo 4 giorni di contenzione? Addirittura ci appare più mostruoso il secondo scenario, perché un luogo dove dovrebbero prendersi cura di te diventa un luogo di tortura e indifferenza, dove un essere umano viene sedato, legato a un letto e per ore e ore nessuno si affaccia o lo fa bere. Questa storia agghiacciante narrata da Dario Stefano Dell’Aquila offre anche l’occasione per riflettere sul trattamento sanitario obbligatorio e sull’abuso e sull’ipocrisia del profilo terapeutico della contenzione, spesso decisa solo per arginare il disturbo arrecato al personale.
La violazione dei diritti si può compiere anche quando il tentativo di salvare la vita diventa cieca ostinazione: come nel caso della piccola Eleonora (Claudia Lupone), rimasta per troppo tempo senza ossigeno e sottoposta a ogni tipo di intervento medico, nonostante non ci fosse alcuna speranza di recupero e i genitori implorassero di lasciare stare la piccola. Oggi i genitori hanno fondato un’associazione, gli Amici di Eleonora, combattono le carenze strutturali delle terapie intensive e difendono la libertà di scelta.
Un altro mondo caratterizzato da arretratezza e indifferenza è il carcere femminile, che è poi è un aspetto di un problema più ampio, quello delle condizioni della detenzione in Italia. Immacolata Carpiniello descrive il fenomeno della detenzione femminile – che costituisce solo il 5% della popolazione carceraria e che cambia con gli anni nella composizione (oggi principalmente costituita da tossicodipendenti e immigrate) ma non nelle condizioni di vita. Basti pensare, solo per fare un esempio, alle decine di bambini che hanno passato i primi 3 anni di vita in carcere perché per loro e le loro madri non c’era altro posto.
Il capitolo dedicato alla violenza sulle donne ci pone di fronte a molti tipi di violenza: non solo quella fatta di botte e ossa rotte, ma quella che si costruisce sulle credenze sbagliate (un fidanzato che ti impedisce di uscire vuole proteggerti; un marito follemente geloso è molto innamorato) e sull’assenza di una volontà politica e istituzionale di porvi rimedio. Ma c’è ancora un altro aspetto che emerge nel racconto di Vera Guida: la dissimulazione della violenza e la negazione del fatto che la maggior parte delle aggressioni e degli omicidi di donne avviene in famiglia. Spesso gli aggressori sono i mariti o gli ex fidanzati, e non l’uomo nero sconosciuto che ti aggredisce dietro l’angolo. Impossibile non rintracciare, in questa complicità silente, gli effetti dell’arretratezza del sistema normativo italiano, che fino al 1981 prevedeva il delitto d’onore e fino al 1996 considerava lo stupro come un reato contro la morale e la società. Insieme causa e sintomo di una arretratezza spaventosa che ha mille facce: da quella giuridica a quella lavorativa. Perché le donne guadagnano meno degli uomini a parità di competenze e ruoli e spesso devono scegliere tra l’impiego e la maternità. In un welfare desertificato qualcuno deve pur rimanere a casa…
Anche le violazioni meno evidenti schiacciano il futuro di moltissime persone: l’obbligo di cambiare città, soprattutto se vivi al sud, e la precarietà dei mille contratti a termine, la trasformazione degli stage in forme di sopruso, la precarietà che diventa un modo di esistere (Rossella Arpino). Non va meglio, spesso, a chi il lavoro sicuro magari ce l’ha, ma deve ridurre le pause, forzare la schiena e le braccia, rimandare una pipì perché si rischia un richiamo se si perde troppo tempo. Il braccio di ferro tra Fiom e Fiat è esemplare e Giovanni Carbone elenca numeri e conseguenze di una catena di montaggio in cui i diritti acquisiti si stanno estinguendo, stritolati tra problemi globali e decisioni miopi non solo italiane.
La violazione dei diritti si compie anche su altri orizzonti. Quando i rifiuti diventano un business miliardario, infatti, il risultato per l’ambiente e per la salute delle persone è disastroso. Intere aree diventano discariche e le cifre sono da capogiro: l’holding criminale “Rifiuti Spa” ha avuto un volume d’affari di oltre 20 miliari di euro nel 2009. Questa è anche la storia (Tonia Limatola) di una rinuncia totale, dove i piccoli coltivatori sono costretti a fuggire e chi prova a ribellarsi si scontra con colossi inamovibili e con l’indifferenza istituzionale e politica. Mentre tutti respiriamo diossina e fumo di pneumatici incendiati. Sui terreni inzeppati di rifiuti magari poi si costruisce qualche condominio abusivo.
Se queste sono le premesse, non ci stupisce del trattamento riservato agli animali, in particolare ai cani cosiddetti randagi (Stella Cervasio). Un trattamento che unisce disattenzione e insensatezza, come nel caso della bizzarra lista dei cani pericolosi stilata nel 2003 dall’allora ministro Girolamo Sirchia. Una lista compilata senza tener conto delle condizioni in cui ogni singolo cane era cresciuto. Una lista inutile e dannosa. Alla quale si devono aggiungere le condizioni dei canili e tutte le altre circostanze in cui gli animali umani trattano gli animali non umani come se fossero oggetti inanimati.
In questo panorama desolato e disgraziato non mancano le voci di ribellioni e le proposte di soluzioni alternative. Ma quelle voci rischiano di sparire e di essere soffocate dal silenzio, a meno che non siano supportate da altre voci. Il primo passo potrebbe consistere nel capire che compiere le scelte più giuste possa anche convenire, considerando che “noi stessi, i nostri figli, i nostri territori, i nostri animali, tutti possiamo diventare vittime di questa marginalizzazione”. Se il richiamo alla giustizia non basta, forse è ora di cominciare a svelare un inganno complice di molte discriminazioni: l’illusione che “a noi non capiterà mai”.