Quando le dimensioni della materia si fanno veramente piccole, le leggi della fisica con cui vengono descritti i fenomeni macroscopici iniziano a rivelarsi inadeguate. È il regno della meccanica quantistica, governato da leggi bizzarre e a volte controintuitive, che possono modificare nettamente le proprietà di materiali altrimenti comuni. Le nanotecnologie nascono proprio da questo assunto, e una delle svolte più importanti nella loro genesi è alla base del premio Nobel per la chimica del 2023: i quantum dot, nanocristalli talmente piccoli che le loro proprietà non dipendono più dalla quantità di elettroni di cui sono dotati, ma piuttosto dalle loro dimensioni. Il comitato dei Nobel ha deciso di premiare Alexei Ekimov, Louis Brus e Moungi Bawendi per questa scoperta, che ha aperto le porte ad applicazioni che vanno dalla creazione di schermi Qled, alla diagnostica medica e alle biotecnologie. Vediamo perché.
Vetro colorato
L’idea che nel mondo delle nanoparticelle le caratteristiche dei materiali siano diverse da quelle a cui siamo abituati studiando particelle di dimensioni maggiori era già nozione comune tra i fisici dalla prima metà del secolo scorso, quando si iniziarono a studiare le conseguenze teoriche delle equazioni diErvin Schrödinger e degli altri pionieri della meccanica quantistica. Fino agli anni ‘70, però, confermare le previsioni teoriche con le osservazioni dirette di queste nanoparticelle era estremamente complicato, viste le difficoltà tecnologiche legate alla produzione di particelle così piccole.
Uno dei primi a riuscire nell’impresa fu proprio uno dei tre scienziati premiati con il Nobel per la chimica del 2023: Alexei Ekimov. Il suo lavoro in origine era dedicato allo studio del vetro, e in particolare dei vetri colorati. I mastri vetrai sanno da millenni che è possibile cambiare il colore del vetro aggiungendo piccole quantità di sostanze come argento, oro o cadmio. E lavorando di fino sulle temperature utilizzate per produrlo: usando un misto di selenide di cadmio e solfuro di cadmio, ad esempio, si possono ottenere vetri sia rossi che gialli, in base a quanto viene riscaldato il materiale allo stato fuso, e quanto impiega poi a raffreddarsi. Cosa determinasse esattamente queste differenze di colore, però, all’epoca di Ekimov non era ancora chiarissimo.
Per questo nel 1979 lo scienziato si mise al lavoro per scoprirlo, dedicandosi alla produzione di vetri colorati che poi studiava utilizzando le tecniche di analisi ottica apprese nel corso del suo dottorato dedicato allo studio dei semiconduttori, con cui è possibile studiare la composizione dei materiali misurandone l’assorbanza (definita come intensità di radiazione che viene assorbita da un corpo) una volta esposti a una radiazione elettromagnetica. Nei suoi esperimenti, lo scienziato russo prese a produrre vetro utilizzando cloruro di rame come “colorante”, e variando le temperature e i tempi di produzione. E una volta analizzati i campioni così ottenuti utilizzando dei raggi X, si accorse che le differenze nella tecnica di produzione avevano prodotto cristalli di rame di dimensioni estremamente diverse all’interno dei suoi vetri: da appena un paio di nanometri, fino ad oltre 30.
Le particelle di dimensioni maggiori assorbivano la luce come fa di norma il cloruro di rame. Ma più diminuivano le dimensioni dei cristalli di rame presenti nei campioni, più la radiazione elettromagnetica che questi assorbivano variava verso il blu. Grazie al suo background di fisico, Ekimov si rese velocemente conto di trovarsi di fronte a un fenomeno fisico in cui le caratteristiche del materiale dipendevano dalle sue dimensioni, come previsto dalla meccanica quantistica. E in effetti, si trattava della prima volta che i quantum dot venivano creati deliberatamente e osservati in laboratorio. Ekimov pubblico la sua scoperta nel 1981, ma in piena guerra fredda la notizia rimase confinata all’interno della cortina di ferro, senza che la comunità scientifica occidentale ne venisse a conoscenza.
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Intanto negli Usa…
Negli anni in cui Ekimov portava a termine i suoi esperimenti in Unione Sovietica, Louis Brus, il secondo Nobel di quest’anno, lavorava presso i laboratori Bell, in America. Il suo obbiettivo era quello di utilizzare l’energia solare per indurre reazioni chimiche, e per farlo utilizzava particelle di solfuro di cadmio, che il chimico stava cercando di rendere il più piccolo possibile, per aumentare la superficie dell’aerea in cui le sue reazioni chimiche avevano luogo.
Un po’ come per il collega russo, la sua scoperta arrivò quasi per caso, quando si accorse che le caratteristiche ottiche delle sue soluzioni di solfuro di cadmio mutavano se lasciava i campioni in laboratorio per qualche giorno. Quale poteva essere la spiegazione? Lo scienziato ipotizzò che dipendesse da un aumento di dimensione delle particelle, e si mise al lavoro per dimostrarlo. Realizzò quindi particelle di solfuro di cadmio di appena 4,5 nanometri, per poi compararne le caratteristiche con quelle di dimensioni maggiori già attenute, di circa 12,5 nanometri. Anche in questo caso, le particelle più grandi si comportavano come il normale solfuro di cadmio. Mentre le proprietà di assorbimento di quelle più piccole erano virate verso il blu.
Come Ekimov, anche Brus si rese conto di trovarsi di fronte a un fenomeno quantistico legato alle dimensioni delle particelle, e pubblicò la sua scoperta nel 1983, segnando l’arrivo dei quantum dot sulla scena scientifica occidentale. I nanocristalli prodotti da Brus, però, contenevano difetti che spesso ne compromettevano le caratteristiche. E per ottenere particelle con dimensioni simili gli scienziati dovevano selezionarle dopo averle prodotte, un processo complesso che allungava notevolmente i tempi di produzione. Perché i quantum dot potessero essere studiati agevolmente, e trovassero applicazioni nello sviluppo di tecnologie commerciali serviva un metodo di produzione più economico, rapido e preciso. Ed è qui che entra in gioco l’ultimo premio Nobel per la chimica di quest’anno.
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I quantum dot diventano realtà
Moungi Bawendi si unì al team di Bruss nel 1988, subito dopo aver terminato un dottorato in chimica presso l’Università di Chicago. Nei laboratori Bell Bawendi esplorò una lunga serie di tecniche e materiali, alla ricerca del metodo perfetto per ottenere i nanocristalli desiderati da Brus. I suoi sforzi non diedero i risultati sperati, ma il chimico non si perse d’animo, continuando le sue ricerche anche dopo essere passato a lavorare per l’Mit. Ed è qui, nel 1993, che arrivò la sua grande scoperta. Il nuovo metodo prevedeva l’iniezione del materiale da cui si volevano ottenere nanocristalli in un solvente a temperatura elevata, fino a saturare la soluzione e ottenere dei piccolissimi cristalli della sostanza desiderata. Variando dinamicamente la temperatura del solvente, Bawendi poteva anche ottenere nanocristalli delle dimensioni desiderate: era l’alba di una nuova era per i quantum dot.
Grazie alle intuizioni teoriche di Ekimov e Bruss, e quindi al genio tecnico di Bawendi, a metà degli anni ‘90 la comunità scientifica aveva finalmente a disposizione tutto il necessario per produrre nanomateriali programmabili, le cui caratteristiche dipendono dalle dimensioni dei nanocristalli contenuti al loro interno. Se fino a quel momento era la tavola periodica a dettare le regole – ovvero, le caratteristiche fisiche degli elementi e dei loro composti dipendevano unicamente dalla quantità di elettroni contenuti nei loro atomi – di colpo si aggiungeva un’altra variabile, la dimensione, su cui agire per ottenere nuovi materiali e nuove possibilità.
L’applicazione più diretta dei quantum dot è stata nel campo dell’ottica. Negli schermi Qled, ad esempio, la produzione di luce è affidata a led blu (super efficienti), e poi trasformata negli altri due colori primari, rosso e verde, utilizzando quantum dot delle giuste dimensioni. Allo stesso modo, i quantum dot possono essere utilizzati nelle lampadine a led, per virare il colore della luce che viene emessa. Le possibilità, comunque, sono molto più ampie.
In medicina, l’elevata programmabilità dei quantum dot permette di utilizzarli per realizzare biosensori, collegarli a proteine e altre biomolecole per sfruttarne la fluorescenza (controllata sempre dalle loro dimensioni) e mappare cellule e organi, o anche per guidare le mani di un chirurgo verso le cellule tumorali che vuole eliminare. Per il futuro, le loro proprietà fisiche programmabili si prevede che renderanno possibili tecnologie come l’elettronica flessibile, nanosensori, celle solari più sottili e potenti, e comunicazioni quantistiche super-sicure. Di certo, c’è materiale per un Nobel, come attestato dalla decisione dell’Accademia delle Scienze svedese.
via Wired.it