Quarant’anni di mine

I conflitti che, durante della Guerra fredda, hanno visto contrapporsi eserciti e gruppi armati su tutto il pianeta hanno lasciato una tragica eredità: milioni di mine anti-persona disseminati su vasti territori, che continuano a rappresentare una minaccia di morte anche quando la guerra è finita. Ecco alcune nazioni del mondo che ne stanno pagando le spese. L’Afghanistan “Il governo, con un forte sostegno di truppe straniere, agisce con grande durezza contro oppositori o sospetti oppositori del regime senza alcun rispetto per i diritti umani”. Le uccisioni di civili sono il risultato di “atti di brutalità commessi dalle forze armate”, “bombardamenti e massacri effettuati per rappresaglia” e “uso di mine anti-persona e di giocattoli booby-trap”. Il governo in questione e quello dell’Afghanistan negli anni ‘80, ai tempi dei regime comunista; le truppe straniere sono quelle sovietiche, entrate nel paese nel dicembre 1979. Le affermazioni sono tratte dal rapporto all’Assemblea Generale dell’Onu nel novembre 1985 del Responsabile Speciale designato nel 1984 dalle Nazioni Unite per esaminare la situazione dei diritti umani in Afghanistan (1). Dunque le mine antipersona e i booby-traps, cioè gli ordigni esplosivi mascherati, la cui collocazione in giocattoli e vietata dalla Convenzione Onu sulle armi disumane del 1980 (2), facevano parte degli strumenti della repressione. In effetti erano usate in modo massiccio nel tentativo di impedire ai gruppi della resistenza afgana di muoversi liberamente nel territorio e anche per forzare la gente ad abbandonare villaggi (3). L’Afghanistan è probabilmente la nazione più minata del mondo. La gran parte delle mine, che dovrebbero essere complessivamente tra i 9 e i 10 milioni, e di produzione sovietica ed e stata collocata dall’Armata Rossa o dal governo filosovietico di Kabul. “Lanciate per lo più dagli elicotteri dei sovietici, sono state un’arma terroristicamente rivolta alle popolazioni” (4). Gli elicotteri d’assalto Mi-8 Hip disseminavano il terreno di piccole mine anti-persona in piastica Pfm-2, chiamate “farfalle” per la caratteristica forma che consente di raggiungere il terreno “sfarfallando” e senza esplodere. Queste “farfalle” pero hanno ferito e ucciso moltissimi bambini, che le hanno scambiate per una specie di giocattolo. Secondo valutazioni della Croce Rossa Internazionale, dal 1985 ad oggi oltre il 30% degli incidenti da mina ha coinvolto bambini (5). Le mine disseminate dai sovietici erano in dotazione all’Armata Rossa. Ma in Afghanistan sono state trovate anche mine cecoslovacche (6), segnale del fatto che vi sono state vere forniture di ordigni dai paesi del Patto di Varsavia al governo afgano. A sua volta anche la resistenza faceva uso di mine, soprattutto anticarro, per contrastare i blindati sovietici. Tra le mine anticarro trovate nel paese, oltre il 60% sarebbe di produzione italiana (7). In particolare sono state trovate Tc-2.4 e Tc-6 probabilmente provenienti dall’Egitto, dove almeno la Tc-6 e prodotta su licenza (8). Tra le mine anti-persona usate dalla resistenza afgana vi sono invece ordigni cinesi e statunitensi. In particolare la cinese Type 72 è un ordigno molto piccolo, in plastica, virtualmente non individuabile, dal modesto costo unitario di 3 dollari. Ad esso può essere applicato un congegno elettronico anti-manipolazione, che provoca 1’esplosione se la mina viene inclinata di più di 10 gradi rispetto all’orizzonte. Uno dei successi della China North Industries Corporation, una delle imprese statali del settore (9). La Cambogia La Type 72 cinese è la mina anti-persona più diffusa in Cambogia, paese dove si stima siano state seminate da 4 a 7 milioni di mine. L’avrebbero usata sia il governo di Phnom Penh e le forze vietnamite che lo appoggiavano, insieme a ordigni di produzione sovietica e vietnamita, sia le forze antigovernative, Khmer Rossi e forze non comuniste, insieme a mine statunitensi, prodotte anche in Grecia e India, e a mine italiane, come la Valmara 69, prodotte su licenza a Singapore (10). Ma la Cambogia era stata anche uno dei principali destinatari delle esportazioni statunitensi di mine anti-persona nel periodo dell’intervento militare statunitense in Indocina, insieme alla Thailandia (11). L’America Centrale La guerra di mine tra regimi appoggiati da una superpotenza e opposizioni armate sostenute dall’altra superpotenza e stata condotta anche in America Centrale, sia pur su scala più ridotta rispetto all’Asia e, come si vedrà, all’Africa. Si stima che in Nicaragua siano state seminate negli anni ‘80 132.000 mine. L’esercito Sandinista ha usato mine di produzione sovietica, tedesco-orientale, cecoslovacca, egiziana e anche qualcosa prodotta in proprio, mentre i Contras antisandinisti hanno collocato mine di produzione statunitense, ottenute anche dall’esercito salvadoregno, e di produzione brasiliana. In El Salvador invece sono state collocate alcune decine di migliaia di mine dal governo militare e dalle forze antigovernative del Fmln, il Fronte “Martì” di Liberazione Nazionale. I militari salvadoregni hanno installato essenzialmente mine di produzione statunitense, mentre i ribelli hanno usato mine modificate e adattate localmente (12). L’Africa Nei conflitti africani si torna a cifre dell’ordine dei milioni di mine. Si stima che in Angola siano state seminate circa 9 milioni di mine. In questo caso la maggior parte degli ordigni e stata collocata dall’Unita, il movimento antigovernativo che ha goduto di un lungo e sostanzioso appoggio da parte del Sudafrica e degli Stati Uniti. Anche le forze armate governative e le forze cubane che le hanno sostenute per qualche tempo hanno installato mine, soprattutto di produzione sovietica. Le mine disseminate, oltre che di origine sovietica, sono di fabbricazione belga, cinese, sudafricana, statunitense, cecoslovacca, tedesco-occidentale e italiana (13). Altrettanto ampia la tipologia di ordigni collocati in Mozambico, dove vi sarebbero, secondo le Nazioni Unite, 2 milioni di mine, stima peraltro piuttosto aleatoria (14). La guerra di mine in Mozambico comincia durante l’ultima fase del dominio coloniale portoghese, nell’ambito del conflitto armato per l’indipendenza del paese, ma si sviluppa a pieno nel successivo scontro tra il governo del Frelimo e l’opposizione armata della Renamo. Nel caso mozambicano i governativi hanno fatto largo uso di mine anti-persona, soprattutto sovietiche, in particolare del tipo Pmn, probabilmente la più diffusa mina anti-persona nel mondo. Le operazioni di sminamento dei Caschi Blu dell’Onumoz, in corso dal l993, hanno portato alla luce anche mine anti-persona e anticarro cinesi, nordcoreane, jugoslave, cecoslovacche. Dato che controllavano le città, le forze governative, per ostacolare l’azione dei ribelli, hanno minato i sentieri di avvicinamento e in generale le zone di campagna, facendo spesso uso di elicotteri, anche in questo caso i sovietici Mi-8. Le forze antigovernative della Renamo hanno seminato soprattutto mine di origine rhodesiana, ottenute ai tempi del potere bianco in Rhodesia, oggi Zimbabwe, e sudafricana, che però a loro volta avevano origini occidentali, ad esempio statunitense, ordigno tipo Claymore, o italiana, mina tipo Valmara, ed erano prodotte su licenza. Anche in questo caso tra le mine usate dai guerriglieri prevaigono quelle anticarro, ma non mancano quelle antipersona (15). Si conferma comunque una certa regolarità per cui in un conflitto interno le forze governative tendono ad usare maggiormente ordigni anti-persona, dato che sono di fronte a gruppi armati generalmente non meccanizzati, mentre le forze dell’opposizione armata usano in primo luogo ordigni anticarro, che colpiscono i mezzi dei governativi e dunque la loro capaciti di movimento. Va anche detto che la distinzione tecnica tra mine anti-persona e anticarro, basata soprattutto sul diverso carico di funzionamento, cioè sul diverso peso necessario a farle esplodere, e poco marcata nel caso delle mine di concezione sovietica. Non sono rari i casi di mine anticarro che esplodono su sollecitazione di un peso umano (16). Altre due zone fortemente disseminate di mine in Africa sono la Somalia, in particolare il nord del paese, e il Sudan, in particolare la parte meridionale. Si tratta di due zone dove agivano, e agiscono, movimenti armati di opposizione che rivendicano 1’indipendenza, contrapposti in tutti e due i casi a regimi militari. Le mine collocate sono sia di provenienza occidentale che sovietica (17). La guerra lran-Iraq L’uso delle mine terrestri nella guerra lran-lraq, il maggiore conflitto armato degli anni ‘80, sembrerebbe a prima vista tornare a dar ragione alle tesi tradizionali dei militari. Dopo l’iniziale offensiva irachena e la controffensiva iraniana della primavera 1982, la prima guerra del Golfo tende a diventare una sanguinosa guerra di posizione. La strategia iraniana, basata sugli assalti a ondate, con l’uso di fanteria, carri armati, artiglieria, mette gli iracheni sulla difensiva. Una delle componenti decisive della difesa irachena e costituita, in questo contesto, dall’uso massiccio di mine anti-persona e anticarro come mezzo per ostacolare 1’esercito attaccante. Per giunta sia l’Iran, nonostante gli oltre 2 milioni 600 mila mine fornite negli anni ‘70 dagli Stati Uniti (18), sia l’Iraq, nonostante le massicce forniture militari sovietiche (19), tentano di avviare una propria produzione militare che consenta di eludere i condizionamenti dei grandi fornitori di armamenti e gli embarghi internazionali. E invece ancora una volta 1’uso effettivo delle mine si rivela molto più vario di quanto previsto dalla dottrina tradizionale. E’ vero che gli iracheni minano per bloccare la fanteria iraniana, ma i1 grosso delle mine anti-persona sono collocate nel Kurdistan iracheno, per controllare e reprimere la rivolta curda. E’ vero che Iran e Iraq cercano strade autonome nell’approvvigionamento e nella produzione militare. Ma le catene produttive e commerciali sono lunghe e arrivano lontano, fino al cuore dei complessi militari-industriali del sistema della guerra fredda. Per quanto riguarda la guerra Iran-Iraq diversi sono gli spunti su cui riflettere. L’Iraq figura come destinatario esplicito di materiali esplosivi forniti da diversi esportatori e per cifre anche consistenti. II caso più clamoroso e quello della Jugoslavia, che tra il 1980 e il 1987 esporta in Iraq esplosivi per quasi 800 milioni di dollari, più del totale delle esportazioni degli Stati Uniti nello stesso periodo. Il caso Jugoslavia è particolare anche per un altro motivo: queste esportazioni sono classificate in gran parte sotto la voce “prodotti pirotecnici” e, quando si è potuto controllare le quantità, corrispondono a migliaia di tonnellate l’anno. C’è il fondato sospetto non solo che questa classificazione copra la reale natura del prodotto, ma che l’industria jugoslava degli esplosivi non sia la sola ad alimentare queste forniture. In sostanza la Jugoslavia sarebbe uno di quei paesi-terminale attraverso cui sempre più si articola l’industria internazionale degli esplosivi e delle mine in particolare. E la Jugoslavia non è l’unico caso: nel periodo considerato, l’industria degli esplosivi portoghese ha, praticamente un solo cliente, l’Iraq appunto, in cui esporta per oltre 43 milioni di dollari. In Iraq hanno esportato esplicitamente, inoltre, la Francia per quasi 19 milioni di dollari, la Gran Bretagna per 14 milioni di dollari circa, l’Austria per quasi 6 milioni di dollari, la Repubblica Federale Tedesca, il Belgio, l’Italia, la Spagna e la Grecia, tutti con cifre intorno ai 2 milioni di dollari negli otto anni considerati. In Iran invece non esporta quasi nessuno. I maggiori fornitori della Repubblica Islamica tra il 1980 e il 1987 nell’area Ocse sono l’Italia e l’Austria, con 8 milioni di dollari di esportazioni ciascuna. In Iran vendono qualcosa anche la Gran Bretagna per 4 milioni di dollari e la Spagna poco più di 3 milioni di dollari. Vi e dunque un netto squilibrio tra i due paesi belligeranti: l’Iran viene considerato inaffidabile nel sistema internazionale, mentre l’Iraq era un partner accettabile anche in campo militare. Una serie di inchieste a livello internazionale hanno pero dimostrato che l’Iran riusciva, attraverso operazioni coperte, a ricevere forniture anche da molti paesi che formalmente lo consideravano sotto embargo. Le inchieste hanno portato alla luce il coinvolgimento dell’intera rete europea dei produttori di polveri ed esplosivi. L’indagine chiave e quella svolta a partire dal 1984 dalle Dogane Svedesi (20). In una prima fase, infatti, il centro delle operazioni è l’impresa svedese Bofors, una delle maggiori produttrici mondiali di esplosivi, ordigni e mine. Ecco le conclusioni dell’inchiesta svedese. A partire dal 1981 la filiale “polveri ed esplosivi” della Bofors, la Nobelkrut, viene orientata alla produzione militare per le zone calde, in primo luogo il Medio Oriente e la zona dei Golfo, in esso, in primo luogo l’Iran e l’Iraq in guerra. Prime forniture di nitrocellulosa nel 1982 vengono fatte passare per forniture di carattere civile. In seguito, con il moltiplicarsi in diversi paesi di vincoli all’esportazione di armi, in particolare verso l’Iran, si sviluppa il metodo delle forniture attraverso triangolazioni, cioè spedizioni con una destinazione finale fittizia o forniture di componenti verso una destinazione intermedia, da cui poi gli ordigni partono per l’Iran. Le richieste iraniane sono molto consistenti e la Bofors non può fare tutto da sola. Viene attivata la rete dei produttori europei di polveri ed esplosivi, un vero e proprio Cartello, appena mascherato da un’associazione-paravento chiamata European Association for the Study of Safety Problems, fondata nel 1975 da sette grandi imprese del settore, la Snpe francese, la Snia italiana, la Bofors svedese, la Nobel’s Explosives britannica, la Wasag-Nitrochemie tedesco-occidentale, la Prb belga e la Muiden-Chemie olandese. Molte altre imprese europee faranno capo a questa rete per esportare in Iran tra il l982 e il 1987. I flussi sono molto consistenti, migliaia di tonnellate di polveri ed esplosivi. Il venditore, prima ancora che si firmi il contratto, deposita un ammontare di denaro su un conto bancario a nome degli iraniani, un deposito di garanzia denominato performance bond. Contemporaneamente il ministero della Difesa iraniano dà l’ordine ad una banca, generalmente la banca Melli che ha sedi a Londra e Francoforte, di emettere una lettera di credito irrevocabile in favore del fornitore pari al valore delle commessa. Entrambe le parti dunque hanno una forma di garanzia. Alla consegna della merce la somma corrispondente alla lettera di credito viene versata al venditore, che contemporaneamente recupera il performance bond, a condizione che le clausole contrattuali siano state rispettate. Questo tipo di procedure necessita dunque di solidi rapporti col sistema bancario. Un tale meccanismo spinge però le imprese a tentare di proseguire ad ogni costo le commesse avviate, di fronte a divieti e vincoli posti dall’autorita politica, per non perdere il deposito di garanzia, oltre che per non subire perdite economiche. Il centro di gravità dei traffici si sposta col tempo dalla Scandinavia verso il Belgio, poi a sud nel Mediterraneo. Nel 1984 il ruolo più importante di intermediazione di questi traffici lo svolge, secondo l’inchiesta svedese, l’Italia. All’epoca non esistono vincoli di sorta all’esportazione di armi in generale e in particolare verso i paesi del Golfo. Un’impresa di Roma, la Tirrena, svolge il ruolo di rappresentante dell’intero Cartello europeo dei produttori. Un porto italiano, quello di Talamone in Toscana, è uno snodo cruciale dei trasporti marittimi verso il Golfo. In effetti è nel 1984 che parte dall’Italia la fornitura più significativa di esplosivi all’Iran: materiale per 6 milioni 600 mila dollari. Nello stesso anno ad un altro capitolo doganale, “armi e munizioni”, l’Iran figura come primo cliente dell’industria italiana con 152 milioni e mezzo di dollari di forniture (21). Per completare il quadro, il 1984 e anche l’anno in cui partono da porti italiani, primo tra tutti Talamone, 9.02l tonnellate di armi e munizioni verso l’Iran (22). Acquistano quindi un significato particolare le forniture di altri paesi Ocse all’Italia nel l984, e diventa significativo che il 1984 sia di frequente l’anno in cui si tocca il livello massimo di esportazioni in Italia. Arrivano materiali dalla Francia per oltre 10 milioni di dollari, dalla Repubblica Federale Tedesca per oltre 8 milioni di dollari, dal Belgio per 7 milioni e mezzo di dollari, dalla Svezia per oltre 7 milioni di dollari. Nel 1985 invece è la Jugoslavia che diventa la principale destinazione fittizia delle forniture europee all’Iran. Ufficiali e funzionari del Ministero della Difesa si prestano al gioco, in cambio, secondo gli svedesi, di tangenti. Poi è la volta di Spagna, Portogallo e Grecia. Anche l’Austria viene coinvolta nella rete di traffici. Nell’inchiesta delle Dogane Svedesi compare anche la più importante impresa italiana produttrice di mine, la Valsella di Brescia. In un primo momento il nome della Valsella viene associato alle forniture all’Iran, ma gli stessi documenti svedesi chiariscono che le esportazioni dell’azienda bresciana sono destinate all’Iraq (23). Si può formulare 1’ipotesi che la stessa rete dei produttori europei sia stata impegnata anche a forniture al regime iracheno, e che anche in questo caso siano stati usati paesi intermediari e paesi-terminale. Infatti se con l’Iraq era consentito commerciare in armi, le richieste irachene erano cosi consistenti che sorgevano comunque problemi di autorizzazione. In effetti, la Valsella esporta mine terrestri in Iraq soprattutto tramite una triangolazione, che prevede il montaggio di componenti, con Singapore. A Singapore arrivano dai paesi Ocse numerose e consistenti forniture tra il 1980 e il 1987: quasi 40 milioni di dollari dalla Gran Bretagna, di cui e il secondo cliente; quasi 25 milioni di dollari dagli Stati Uniti; oltre 10 milioni di dollari da Francia e Repubblica Federale Tedesca. L’esercito iracheno colloca in tal modo nel Kurdistan, nord Iraq, dai 5 ai 10 milioni di mine, spesso facendo uso di elicotteri. Le mine trovate risultano originarie di Belgio, Canada, Cina, Germania Est, Egitto, Italia, Unione Sovietica, Spagna, Stati Uniti, oltre che prodotte in proprio su licenza e copiate (24). Gli elicotteri sono sovietici, francesi e italiani (25). Note (1) Citato in Amnesty lnternational Report 1986, London: Amnesty lnternational Publications, 1986, pp. 208-209. (2) Convention on Prohibitions or Restrictions on the Use of Certain Conventional Weapons Which Map be Deemed to be Excessively Injurious or to Have Indiscriminate Effects, Convenzione delle Nazioni Unite sulle armi disumane e protocolli annessi, Ginevra, 10 ottobre 1980, riportata in “The Arms Project of Human Rights Watch & Physicians for Human Rights”, Landmines, cit., pp. 365-380. (3) “A caccia di “farfalle” in Afghanistan”, intervista con Sayed Aqa, Direttore della Mine Clearance Planning Agency di Islamabad, Mani Tese, giugno 1994. (4) “A caccia di “farfalle” in Afghanistan”, intervista con Sayed Aqa, cit. (5) The Arms Project of Human Rights Watch G Physicians for Human Rights, Landmines, cit.; Femando Termentini, “L’incubo sotto i piedi”, Difesa Oggi, a.XV, 5, maggio 199l; A caccia di “farfalle” in Afghanislan, intervista con Sayed Aqa, cit. (6) The Arms Project of Human Rights Watch & Physicians for Human Rights, Landmines, cit. (7) A caccia di “farfalle” in Afghanistan, intervista con Sayed Aqa, cit. (8) lnformazione tratta dagli annuari Jane’s e riportata in Marco De Andreis, Gianluca Devoto, Le esportazioni italiane di armi nel dopoguerra. Dati generali e schede analitiche, Roma: Cespi (Centro Studi di Politica Internazionale), 1989. (9) Gian Carlo Treggi, “No alle mine terrestri”, Difesa Oggi, a.XVIII, n. 177/l78, settembre-ottobre l994; “The Arms Project of Human Rights Watch & Physicians for Human Rights”, Landmines, cit. (10) “he Arms Project of Human Rights Watch G Physicians for Human Rights”, Landmines, cit. (11) Tabella sulle vendite statunitensi di mine terrestri 1969-1992 in “The Arms Project of Human Rights Watch & Physicians for Human Rights”, Landmines, cit., p. 106. (12) “The Arms Project of Human Rights Watch & Physicians for Human Rights”, Landmines, cit. (13) “The Arms Project of Human Rights Watch & Physicians for Human Rights”, Landmines, cit. (14) Human Rights Watch Arms Project, Landmines in Mozambique, New York: Human Rights Watch, l994, pag. 14. (15) Human Rights Watch Arms Project, Landmines in Mozambigue, cit.; Lupo, “Sminamento in Mozambico”, Raids, n. 86, gennaio 1994, pp. 10-l4; Lupo-Jean Pierre Husson, “Mozambico anno zero”, Raids, n. 93, agosto 1994, pag. 36. (16) Fernando Termentini, L’incubo sotto i piedi, cit.; Gianandrea Gaiani, “L’operazione di sminamento in Mozarnbico”, Difesa Oggi, a.XVlll, n 169/170, gennaio-tebbraio 1994. (17) “The Arms Project of Human Rights Watch & Physicians for Human Rights”, Landmines, cit. (18) Tabella sulle vendite statunitensi di mine terrestri 1969-1992 in “The Arms Project of Human Rights Watch & Physicians for Human Rights”, Landmines, cit., pag. l06. (19) Michael Brzoska e Thomas Ohlson (Sipri), Arms Transfers to the Third World l971-85, London and New York: Oxford University Press, l987. (20) ll Dossier della pre-inchiesta Bofors della polizia doganale svedese (Förundersökningsprotokoll Bofors) ha costituito la base per l’inchiesta giudiziaria in Svezia. Esso è suddiviso in 26 volumi, di cui i primi 6 con i verbali degli interrogatori e gli altri con documenti. La Dogana Svedese ha anche inviato nel 1986 e nel l987, a titolo di cooperazione doganale internazionale, importanti documenti tratti dal Dossier alle dogane degli altri paesi europei. Cfr. Walter De Bock, Jean Charles Deniau, Des Armes pour l’Iran, Paris: Gallimard, 1988, pp.235-237, il testo di De Bock e Deniau, che si basa gran parte sull’inchiesta svedese, e il riferimento per questa ricostruzione. (21) Ocse (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico), Statistics of Foreign Trade, cit., 1984. (22) lstat (Istituto Nazionale di Statistica), Statistiche della navigazione marittima, Roma: Istat, annuale, volume con i dati 1984. (23) Mauro Suttora, “Irangate all’italiana”, Europeo, 5 settembre 1987. (24) “The Arms Project of Human Rights Watch & Physicians for Human Rights”, Landmines, cit. (25) Michael Brzoska e Thomas Ohlson (Sipri), Arms Transfers to the Third World 1971-85, cit.

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