I ricercatori che lavorano nel campo dell’informatica quantistica li hanno chiamati qubit, fondendo le parole “bit” e “quantistico”. Si tratta, come suggerisce il nome, dell’entità minima di informazione elaborabile da un computer quantistico, ossia un calcolatore basato, anziché sull’elettronica “tradizionale” – quella di chip e transistor a semiconduttori, per intenderci – sulle leggi della meccanica quantistica. Un campo di ricerca molto promettente, anche se ancora acerbo: i computer quantistici, stando alle previsioni dei modelli teorici e ai primi risultati sperimentali, saranno molto più veloci e potenti rispetto a quelli classici.
Arriva oggi un nuovo importante passo in avanti nel settore: un’équipe di scienziati della Purdue University ha infatti appena teorizzato un nuovo approccio di codifica e memorizzazione delle informazioni quantistiche, basato sulle cosiddette quasi-particelle, una bizzarra entità matematica che è descrivibile e si comporta, per l’appunto, “come se” fosse una particella quantistica vera e propria. I dettagli della ricerca sono stati pubblicati sulla rivista Nature Physics.
Elettroni in prigione
“Siamo ora in grado”, ha spiegato Michael Manfra, professore di fisica e astronomia alla Purdue, “di far interferire tra loro le quasi-particelle per studiarne meglio le proprietà. La comunità scientifica ci stava provando da parecchio tempo, ma finora le difficoltà tecniche avevano reso molto problematica la caratterizzazione delle quasi-particelle”. Per riuscirci, l’équipe di Manfra ha messo a punto un dispositivo miniaturizzato servendosi di una particolare tecnica che fa “crescere” dei cristalli uno strato atomico per volta: il dispositivo è così piccolo da riuscire a confinare degli elettroni su un piano. In altre parole, gli elettroni “catturati” dal cristallo possono muoversi solo in due dimensioni, ma non verso l’alto e verso il basso. Un po’ come se fossero i fantastici abitanti di Flatlandia di Edwin Abbott.
Dagli elettroni ai quasi-elettroni
C’è di più: gli elettroni sono stati raffreddati a temperature molto basse, vicine allo zero assoluto, e quindi sottoposte a un forte campo magnetico. L’insieme di queste tre condizioni – confinamento bidimensionale, basse temperature e campo magnetico – fa sì, dice Manfra, che “la fisica cominci a diventare molto strana”: “In queste circostanze, gli elettroni si dispongono in modo da creare un bizzarro ‘oggetto’ che ha carica elettrica pari a un terzo rispetto a quella degli elettroni ‘normali’. Quello che chiamiamo quasi-particella”. A questo punto, gli scienziati si sono serviti di un interferometro (un dispositivo che consente di far interagire tra loro più particelle, creando la cosiddetta “figura di interferenza”) per studiare le proprietà dei quasi-elettroni. E così, per la prima volta al mondo, la comunità scientifica è riuscita a osservare direttamente l’interferenza quantistica di quasi-particelle.
Dalle quasi-particelle ai qubit
Cosa c’entra tutto questo con i computer quantistici? Secondo gli autori della ricerca, i meccanismi osservati potrebbero spianare la strada alla teorizzazione di qubit “topologici”, entità che potrebbero a loro volta essere utilizzate in processori quantistici di nuova generazione: “Per quanto ne sappiamo”, ha concluso Manfra, “il nostro è l’unico approccio fattibile per realizzare esperimenti più complessi che, in scenari più elaborati, potrebbero rappresentare le basi per la realizzazione di qubit basati su quasi-particelle. Stiamo provando a farlo da un pezzo, con l’obiettivo finale di validare le strane proprietà che abbiamo osservato. Non ci siamo ancora arrivati, ma abbiamo fatto un grande passo avanti”. Per i quasibit (o quasiqubit?), insomma, ci sarà ancora un po’ da attendere.
Riferimenti: Nature Physics
Credits immagine: D-Wave Systems, Inc. – D-Wave Systems, Inc., CC BY 3.0, Collegamento