Claude Reiss, tossicologo molecolare, ha lavorato per anni al CNR francese dove è stato direttore di ricerca. Giunto alla pensione, convinto che per valutare la tossicità delle sostanze chimiche il modello animale sia ormai superato, si è dedicato a un campo di ricerca innovativo, quella che lui definisce la nuova tossicologia. Sperimentare su animali è un sistema “cruento, antieconomico e poco preciso, anzi poco affidabile”, ha affermato durante un convegno organizzato a Roma lo scorso marzo dalla Federazione dei Verdi. Sapere gli ha rivolto alcune domande per comprendere meglio il suo punto di vista.
Professor Reiss, perché secondo lei i test sugli animali non sarebbero predittivi?
La prova è molto semplice, e può essere capita anche dalle persone non esperte. Ogni specie è definita dalla sua capacità riproduttiva particolare, che consente agli individui di riprodursi solo in seguito all’accoppiamento con un esemplare della stessa specie: cane con cane, pollo con pollo e non cane con gatto. Questo perché il corredo genetico, cioè il set di cromosomi, è unico per ogni specie. Quello dello scimpanzè è diverso da quello umano, e questa è la ragione per cui esemplari di specie diverse non si possono incrociare. Il corredo genetico è ciò che determina anche la riposta di un organismo all’ambiente: il comportamento biologico è quindi anch’esso unico. Se una specie è esposta a un agente chimico reagisce in un modo che è frutto del suo patrimonio genetico. Ecco perché nessuna specie può essere considerata un modello affidabile di un’altra specie. È una prova logica.
Questo ragionamento vale anche per le medicine?
Sicuramente: è un ragionamento generale. Sviluppare dei trattamenti per topi malati del morbo di Parkinson o di Alzheimer può forse aiutare questi animali, ma non ci dice niente sugli umani. Molte volte è stata annunciata la scoperta di meccanismi molecolari importanti per la cura di una malattia oppure l’efficacia di una molecola nel modello murino, ma spesso quella soluzione non ha funzionato sull’essere umano. La prova principale di quanto dico sono i numeri: nonostante il fatto che la vita media in Europa e nelle altre nazioni sviluppate sia aumentata, la morbilità non è diminuita. Molti milioni di cittadini soffrono di malattie neurodegenerative, e negli ultimi anni si è registrato un aumento di queste condizioni in persone tra i 20 e i 40 anni. Lo stesso ragionamento si può fare con il cancro. Se è vero che il 5-10 per cento di tutti i tumori ha una base genetica e la loro incidenza si è mantenuta costante nel tempo, allora sono stati altri i fattori (abitudini di vita, fattori esogeni ed esposizione a sostanze cancerogene) a far aumentare l’incidenza dei tumori. La curva della mortalità per cancro in funzione del tempo mostra che a partire dagli anni Sessanta – quando la maggior parte dei prodotti chimici furono introdotti sul mercato – la mortalità per tumore in Europa è aumentata di sette volte per la classe di età tra i 40 e i 44 anni. Se, come credo, 90-95 per cento dei tumori è di origine ambientale, allora i metodi usati per valutare la tossicità degli elementi chimici, da una parte, e quelli per testare le medicine, dall’altro, non sono affidabili. Infine, nonostante si impieghino molti anni in ricerca e prove per testare un prodotto farmaceutico, le reazioni avverse ai medicinali sono la quarta causa di morte nell’Unione Europea.
Cosa pensa degli animali modificati geneticamente per mimare il più fedelmente possibile le malattie umane?
In questo caso si inseriscono nel genoma animale pochi geni umani oppure si modificano quelli dell’animale in modo da indurre la produzione o l’inibizione di una proteina che si sa essere coinvolta nell’insorgenza della malattia che si vuole studiare. Si tratta comunque di una porzione di geni molto piccola rispetto al totale, pochi elementi immersi in un ambiente -10 milioni di geni – che è diverso da quello umano, sia fisiologicamente sia biologicamente. Cellule cancerose umane sono state introdotte in topi supponendo che in quell’ambiente esse potessero sviluppare un tumore simile a quello umano. Ma la pratica ci insegna che ci sono sostanze che sono teratogene per i topi e non per gli umani, come la vitamina C o l’aspirina. O il contrario. Il processo cancerogeno che si sviluppa nei topi è diverso da quello che colpisce l’organismo umano, e sappiamo anche perché.
Perché, dunque?
Perché le cellule del topo si dividono molto più rapidamente di quelle umane e, nel caso del cancro, per esempio, quelle “impazzite” diventano immortali molto più velocemente di quelle umane. I topi vivono 24 mesi e di solito verso i 9-12 mesi i tumori si sviluppano spontaneamente nei topi. Fortunatamente per gli umani i problemi iniziano in media verso i 40 anni. Questa singolo dato ci dovrebbe far capire come lo sviluppo dell’organismo di ogni specie animale proceda in modo diverso.
Ma finora la ricerca biomedica si è basata sulle sperimentazioni animali. È stato tutto un errore?
Non diamo colpe a chi non ne ha. Fino a 15-20 anni fa non c’era altro modo di procedere se non usando il modello animale: non c’era un’alternativa valida. Ora, però, i tempi sono cambiati. La ricerca biomedica contemporanea ci fornisce i mezzi per capire cosa succede a livello molecolare nell’essere umano: non c’è più ragione di usare i modelli animali per provare la tossicità di un elemento chimico o l’efficacia di un farmaco.
Può farci un esempio?
Con i miei collaboratori della Vigilent Technologies ho sviluppato una nuova terapia contro l’AIDS e la sostanza chimica che abbiamo proposto come terapia è stata testata grazie alla tossicogenomica. Se lo avessimo fatto sugli animali, non sarebbe stato rilevante: il loro sistema immunitario, infatti, funziona talvolta in modo opposto, talaltra in modo simile o uguale al nostro, a seconda dei casi. Per esempio, gli scimpanzé inoculati con l’HIV non sviluppano la malattia. Nel caso del virus dell’epatite B, solo 1 su 10 sviluppa una forma lieve, e guarisce in poco tempo, mentre il virus Ebola scatena in loro una febbre emorragica letale. E si tratta del modello animale geneticamente più simile all’essere umano! I modelli animali sono quindi inutili, se non dannosi. Quando, agli inizi degli anni Novanta, in Francia scoppiò lo scandalo del sangue infetto da HIV usato per le trasfusioni si capì qual’era stato il tragico errore: gli scienziati si erano fidati del fatto che negli animali quel sangue non dava alcuna risposta. Per questo i test si devono fare prima di tutto sulle cellule umane, poi su interi organismi umani. Noi abbiamo eseguito dei test preclinici grazie a tecniche di tossicogenomica e ora andremo in fase 1 con persone che non hanno nulla da perdere, perché hanno già provato senza successo tutte le altre terapie disponibili.
Quali sono, allora, le basi per valutare il rischio tossicità per gli umani?
Prima di tutto si deve partire dalla cellula, è lì che inizia la vita. Non deve sorprendere – e infatti è provato pienamente dalla biologia moderna – che la risposta alla stragrande maggioranza dei problemi biologici si trovi a livello cellulare. Le malattie umane hanno invariabilmente una origine cellulare, sia nel caso in cui la causa sia endogena sia se sia esogena. Questo è vero per il cancro, per le neuropatologie o le malattie cardiovascolari, solo per citare le condizioni più diffuse in Europa. Ne segue che un danno procurato a una cellula da una sostanza tossica, insieme alle sollecitazioni che vengono all’organismo dalla sua interazione con l’ambiente, può rappresentare il primo passo verso lo sviluppo di una malattia. Ora, alla tossicologia tradizionale basata sul modello animale noi opponiamo la tossicologia basata sulla scienza , la Science-Based Toxicology o SBT, le cui radici affondano nella moderna biologia molecolare e cellulare. Lo studio delle cellule umane in un ambiente tossico è quindi il primo passo per una valutazione affidabile della tossicità per l’essere umano.
Con quali strumenti?
Grazie alle colture cellulari è possibile capire in che modo una sostanza attraversa la barriera e, una volta dentro, attiva geni coinvolti nella metabolizzazione di alcuni enzimi fondamentali per la vita della cellula, oppure interferisce con i meccanismi di duplicazione. Dal momento che gli obiettivi primari delle sostanze nocive sono fegato e rene, nella valutazione di una sostanza si dovrà partire dallo studio dei suoi effetti su colture cellulari epatiche e renali. Il secondo passo è quello di seguire il destino della cellula nella quale è entrata una sostanza potenzialmente tossica: essa infatti reagirà mettendo innescando dei meccanismi di difesa, cioè impartirà ordini a dei geni. Alcuni di questi potranno essere usati come “reporter”, cioè fonti di informazioni sulla capacità della cellula di reagire. Il problema è che “il racconto” che questi geni possono fare è impersonale: non sappiamo cioè qual è stato il bersaglio della sostanza tossica ma solo che essa è entrata e che la cellula ha iniziato a difendersi. Ed ecco che ci viene in aiuto la tossicogenomica, la possibilità, grazie a DNA chip di avere su un piccolo pezzetto di silicio centinaia di migliaia di elementi genetici che si sa essere coinvolti nella risposta all’attacco tossico. Il sistema è molto semplice e i geni di una cellula appaiono come dei puntini su una piastrina: immergendo il chip in una sostanza possiamo capire con precisione se è tossica o meno a seconda del colore che si attiva. Oltretutto, questi sistemi sono molto rapidi – agiscono tra le 24 e le 48 ore – e sono anche molto economici rispetto a quelli che utilizzano gli animali. A questa fase segue quella della valutazione di tossicoproteomica: il monitoraggio grazie a spettroscopia di massa, chip proteici, elettroforesi capillare delle sostanze prodotte dai geni che sono stati modificati dalla sostanza che stiamo studiando. Esistono poi kit diagnostici per valutare lo stato di salute di alcuni enzimi fondamentali per l’innesco del sistema di riparazione del DNA, per esempio la famosa proteina p53: se questa non viene prodotta a sufficienza, la cellula si replica portandosi dietro gli errori, potenzialmente cancerogeni. Oppure sistemi in grado di valutare lo stato dell’organizzazione cellulare, il suo corredo e il suo metabolismo.
Guardare cosa accade a una cellula è davvero sufficiente? Il comportamento di un organismo nella sua complessità non potrebbe essere diverso?
Certo, il corpo non è la somma dei tessuti e degli organi. Ma se un elemento chimico è tossico per la cellula, allora lo è anche per tutto il corpo: siamo costituiti di cellule. Ma il contrario non è vero. Un elemento che non è tossico per la cellula potrebbe esserlo per l’organismo. Dobbiamo quindi aggiungere alle metodiche cellulari – che usiamo per capire quali elementi sono sicuramente nocivi per l’organismo – altri test che guardano a tessuti, per esempio la perfusione di fette di organi, anche se si tratta di metodi molto costosi. Il migliore test è quello che usa volontari pagati, sotto il controllo di medici e seguiti con esami che monitorino come rispondono tutti gli organi, per esempio con una tomografia a emissione di positroni, la PET. Gli isotopi producono elettroni con segno positivo che, quando ne incontrano uno negativo, producono due fotoni. Se introduciamo questi isotopi in un farmaco e i volontari lo ingeriscono, con la PET si può andare a vedere dove il farmaco va ad agire, perché emette segnali, come verrà eliminato, quanto ne rimane nell’organismo. Riusciremo cioè a determinare la farmacodinamica e la farmacocinetica, parametri fondamentali per la conoscenza di un medicinale e per la sua approvazione da parte degli enti preposti. Si tratta di una tecnica moderna che viene spesso usata per capire se e dove ci sono delle metastasi perché le cellule metastatiche usano molto ATP (adenisintrifosfato, il carburante che fa lavorare la cellula, NdR), sono cioè molto attive e consumano energia. Se somministriamo a un paziente ATP marcato con isotopi e poi monitoriamo dove questo viene usato di più, scopriamo le zone dove probabilmente si nascondono delle metastasi.
La nuova tossicologia a cui lei lavora ha suscitato l’interesse delle aziende farmaceutiche?
La Food and Drug Administration statunitense ha dichiarato di recente che se le case farmaceutiche forniranno i dati di farmacogenomica per i loro medicinali allora le procedure di approvazione delle loro specialità saranno accelerate in maniera significativa. Questo incoraggiamento farà sì che molte industrie investano in questo campo. La tossicogenomica sta ormai diventando un argomento di discussione nell’ambito dei meeting internazionali di tossicologia, ai quali partecipano in gran parte ricercatori delle industrie. I metodi della nuova tossicologia sono molto meno onerosi per le aziende: i test possono essere condotti in parallelo con diverse linee cellulari, e sono più economici di quelli tradizionali. Inoltre, testare direttamente su cellule umane permetterà alle industrie di diminuire gli effetti collaterali dei loro prodotti. I test infine sono facilmente standardizzabili e quindi i loro risultati possono essere riconosciuti da un paese all’altro. Se una casa farmaceutica deciderà di testare i propri prodotti su cellule umane – e con la farmacogenomica si potrà addirittura arrivare a testare medicine su patrimoni genetici di singole popolazioni – potrà rivolgere il proprio investimento in termini di sicurezza e affidabilità per il consumatore. La rivoluzione in campo farmaceutico è iniziata, ma impiegherà comunque degli anni. In campo chimico, però, già oggi la tossicogenomica potrebbe essere realtà.
In che modo?
L’Unione Europea ha una grande occasione: il programma REACH, grazie al quale tutte le sostanze chimiche presenti sul mercato dovranno essere testate per i loro effetti collaterali sull’essere umano e sull’ambiente. Un’impresa imponente i cui costi dovranno essere tutti a carico delle industrie. Se i test verranno eseguiti su animali si stima che ne verranno sacrificati 100 milioni, al prezzo di 100 euro l’uno, per un totale di 11 miliardi di euro. Tra l’altro sono test che durano mesi e mesi per una sola sostanza e si finirebbe forse nel 2100. Per avere cosa? Dei risultati che non sono attendibili. Con i metodi di tossicogenomica invece si potrebbero diminuire i costi di centinaia di volte e si potrebbe finire il lavoro in 2-3 anni.