Alle 14:46 ore locali, al largo delle coste nord-orientali del Giappone, nella regione di Tohoku, la terra, a 30 chilometri di profondità, trema: una scossa di magnitudo 9, che fa innalzare le acque sovrastanti fino a generare uno tsunami con onde maggiori di 10 metri (fino a 40 raccontano le cronache, come registrato nella città di Miyako, nella prefettura di Iwate, tra le più colpite dal maremoto). Le onde dello tsunami viaggiano fino ad abbattersi sulla costa, lasciando numeri spaventosi a testimonianza del loro passaggio: almeno 15.700 i morti, oltre 4.600 i dispersi, 130mila gli sfollati, 332mila gli edifici distrutti. E ancora: migliaia di strade e decine di ponti e ferrovie distrutte dalla forza dell’acqua. Ma a peggiorare il bilancio dell’11 marzo 2011 è senza dubbio l’incidente avvenuto alla centrale nucleare di Fukushima Dai-ichi, il peggiore che la storia ricordi insieme Chernobyl, col quale condivide il triste primato di incidente di livello 7 (il più alto) nella International Nuclear Event Scale (Ines).
Stimare i danni e le ripercussioni, ambientali, sanitarie, politiche e sociali, causati dall’incidente di Fukushima è forse impossibile (ma Wired è andato a esplorare la zona). Forse un bilancio più realistico di quelli che da quel marzo 2011 si susseguono sarà possibile farlo tra trent’anni: tanto infatti ci vorrà per mettere completamente in sicurezza i reattori danneggiati dal maremoto. Anni ci vorranno per capire quanto le stime sui rischi per la salute (comunque ridimensionati) per le persone provenienti dalle regioni ad alta e moderata contaminazione combaciano con i dati reali. E tempo ci vorrà per capire quanto osservato – come l‘aumento dei tumori alla tiroide nei bambini – sia o meno un effetto direttamente imputabile al rilascio di radiazioni.
A quattro anni di distanza, quello che possiamo fare oggi è raccontare a che punto siamo e ricordare quel che successequell’11 marzo 2011 e nei giorni immediatamente successivi.
Le onde causate dal terremoto al largo del Giappone arrivando a terra investirono la centrale di Fukushima, gestita dalla Tepco, superando le barriere protettive alte oltre cinque metri. Durante il terremoto i reattori (ad acqua bollente: Bwr – Boiling Water Reactor, ovvero che usano acqua leggera come moderatore e come liquido termovettore) hanno smesso di funzionare. Come meccanismo di sicurezza, infatti, al momento della rivelazione delle scosse, il sistema di controllo ha posizionato barre di controllo nel nocciolo per bloccare la reazione di fissione nucleare, ma rimaneva il problema di smaltire le enormi quantità di calore residuo prodotto dalla fissione.
Questo smaltimento avveniva grazie a un sistema di raffredamento ad acqua che a Fukushima però, in seguito al maremoto, smette di funzionare (salta l’alimentazione elettrica). Anche i generatori diesel che avrebbero dovuto tamponare questa emergenza hanno funzionato per un tempo limitato, di fatto provocando un blocco nel sistema di raffreddamento dei reattori che si cerca di arginare ricorrendo a mega-idranti ed elicotteri che pescano acqua di mare e la riversano sui reattori.
Il malfunzionamento del sistema di raffreddamento ha quindi provocato il surriscaldamento dell’acqua e del combustibile (contenuto all’interno di barre di zirconio), con la conseguente produzione di grandi quantità di vapore ed idrogeno e aumento della pressione, che ha costretto i tecnici a far fuoriuscire una parte del vapore, disperdendo l’idrogeno che ha così causato alcune esplosioni. Una cascata di eventi che determinerà da ultimo la fusione dei noccioli 1, 2 e 3 della centrale ed il rilascio di iodio, cesio e cobalto radioattivi.
Via: Wired.it
Credits immagine: IAEA Imagebank/Flickr CC