Tatjana Buklijas e Nick Hopwood (a cura di)
Making Visible Embryos
University of Cambridge e Wellcome Trust
«Le immagini degli embrioni umani sono dappertutto. Le troviamo nei quotidiani, negli ospedali, nelle aule scolastiche, nei laboratori, negli album di famiglia, in internet… Le consideriamo oggi un dato scontato. Solo 250 anni fa lo sviluppo umano non si poteva vedere ancora da nessuna parte». Con queste parole, e l’immagine di un’artigiana tedesca con in mano un piccolo modello di feto (anni Quaranta del Novecento) inizia la bella esposizione virtuale Making visible embryos, curata da Tatjana Buklijas e Nick Hopwood del dipartimento di Storia e Filosofia della Scienza dell’Università di Cambridge, in collaborazione con il Wellcome Trust di Londra. Il tema è appunto quello del percorso, lungo tre secoli, dall’invisibilità alla visibilità, fino alla spettacolarità, di quello che dai curatori viene chiamato “l’embrione”. Vi viene esplicitato il lunghissimo “lavoro” che sta dietro l’attuale visibilità degli embrioni-feti. Alla fine della mostra la conclusione sarà lapidaria: «Ciò che è visibile – e si potrebbe dire: ciò che è stato fatto diventare visibile – non è la stessa cosa che è stata nascosta». «Nessuna donna del XVIII secolo pensava che un embrione si stesse sviluppando dentro di lei»; le poche rappresentazioni del tempo mostrano di volta in volta immagini simboliche anche molto diverse l’una dall’altra, perché quando si è voluto rappresentare visivamente ciò che sta dentro il corpo gravido di una donna, lo si è fatto per motivi molto diversi. Le illustrazioni del XVIII secolo, tese a comunicare conoscenza, nel XX secolo si saranno trasformate in simboli tesi a scopi del tutto diversi.
L’esposizione si snoda attraverso nove sezioni (vi viene seguito un iter grosso modo cronologico), contenenti a loro volta dei box tematici, dove è tra l’altro apprezzabile il rapporto testo-immagini, nonché la scelta delle immagini stesse: non sempre le più “suggestive” rappresentano feti, ma piuttosto l’artigiano modellatore di feti nel suo laboratorio, la scultura dello scienziato che «contempla un piccolo modello di embrione nella sua mano destra» (l’anatomista Wilhelm His nel 1900). Un altro degli aspetti interessanti della mostra virtuale è l’equilibrato, e approfondito, apporto interdisciplinare, e soprattutto il costante – al tempo stesso rigoroso e disinvolto – mix fra discipline scientifiche e scienze umane nell’interpretazione di questo percorso di visibilità. Per ricercatori e studiosi è preziosa la bibliografia tematica, esaustiva e aggiornata, cui si accede sia direttamente, cliccando in alto a destra della pagina web (e si vedrà l’intera bibliografia), sia cliccando sulla voce resources in basso a ogni pagina a tema (e si andrà direttamente alla bibliografia relativa).
Già negli esempi di immagini medievali e della prima età moderna, i non nati-unborn sono molto diversi l’uno dall’altro: il bambino divino nell’utero trasparente della Vergine Maria, un omuncolo in una goccia di sperma, uno “schematico” bambinello nel ventre nei manuali ostetrici (quegli stessi manuali che rappresentano però realisticamente il corpo femminile adulto). «Le immagini sono così diverse perché gravidanza e generazione alludono a, e hanno altrettanti significati diversi: l’acquisizione di un’anima immortale, la creazione di legami familiari, l’organizzazione della materia informe». Nella realtà, l’esistenza di un bambino nel ventre a quei tempi «era nascosta al mondo e in buona parte incerta fino alla nascita». Il ventre gravido, fino al XVIII secolo era «culturalmente protetto» e la gravidanza era un «affare di donne». Per questi motivi storici e culturali, l’interesse del(lo sguardo) medico per il contenuto del ventre gravido risente dei limiti dovuti al «limitato accesso» al corpo delle donne incinte. Questi i motivi, espressi nella mostra, che spiegano come mai le rappresentazioni dei nascituri rimangano, così a lungo, largamente schematiche.
Fra Sei e Settecento l’embrione-feto, e le sue rappresentazioni, diventano centrali nel dibattito che si sta svolgendo nel mondo scientifico sulle teorie della generazione, ove si scontrano la teoria della preesistenza e l’epigenesi, di matrice aristotelica. Epigenisti e preformisti guardano al microscopio: ognuno vi trova conferma della propria ipotesi. Mentre le due “fazioni”, servendosi anche delle immagini fetali, cercano di descrivere le leggi della generazione, i “mostri” prima esempi mirabili della natura, ovvero segni di volontà divina, diventano ora per gli scienziati una prova delle leggi dello sviluppo. La terza sezione della mostra si occupa appunto di sviluppo dell’embrione-feto umano, affrontando dapprima il tema del blind-spot-angolo cieco in cui vanno a cadere scienziati quali Soemmering che con una volontà di conoscenza superiore ai suoi strumenti, volendo «svelare il mistero del buio nel ventre», fa avanzare la ricerca, ma senza poter illuminare a fondo la questione ancora misteriosa dello sviluppo embrionale. E intanto artisti e scienziati producono immagini-shock: oltre alla famosissima tavola di Soemmering sulle fasi dello sviluppo (1799), le altrettanto celebri tavole incise da van Rymsdyk (nell’Atlas di Hunter) sono “esposte” e messe a confronto in una scheda di approfondimento.
Nel Settecento l’attenzione al ventre gravido da parte di scienziati, e artisti, si allea, o perlomeno procede parallelamente a una nuova attenzione degli stati per la tutela della maternità e dell’assistenza al parto. Questioni fisiologiche e politiche si intrecciano, quale ad esempio la necessità di definire la durata della gravidanza. La questione va a sfociare in temi scabrosi (questioni di medicina legale, ad es.: aborto, infanticidio), ma corrisponde a «un nuovo atteggiamento della cultura europea nei decenni attorno al 1800, che si traduce in nuovi approcci storici alla natura e alla società». Ed è nel corso dell’Ottocento che qualcosa di scabroso diventa norma nel mondo della ricerca scientifica: si tratta delle collezioni di feti, attuate grazie a macabre ricerche. Nascituri morti nel ventre e aborti di figli non voluti, vengono tutti assieme classificati come «serie di forme di vita in via di sviluppo». C’è da dire che per ora lo studio dello sviluppo del feto non interessa altri che gli “addetti ai lavori”, e si diffonde però nell’insegnamento. Grosso modo infatti dalla seconda metà dell’Ottocento ai primi del Novecento l’embriologia, grazie anche all’uso del microscopio, diventa disciplina di insegnamento universitario. È a metà Ottocento che per la prima volta in aule di università europee vengono mostrati agli studenti embrioni-feti umani. Tuttavia, lo studio al microscopio procede parallelamente a una visione romantica della «gestazione della natura», e infatti «il Romanticismo ha ispirato storie incatenate della terra e di piante, specie animali, e di embrioni».
Nei luoghi del sapere, le università, la storia delle scienze è «una storia del rapporto fra valori simbolici e progredire scientifico», mentre la storia della tecnica, e delle tecniche, si incrocia con la storia della visibilità: i laboratori di modellamento si occupano di produrre rappresentazioni da mostrare agli studenti «per convertire la disordinata esperienza della dissezione anatomica in mappe mentali ben ordinate». Con la fine del XIX secolo i modelli di embrioni-feti escono dalle aule per diventare oggetto di sguardi e osservazione del pubblico nelle collezioni museali. Parallelamente vanno ad occupare un posto importante nella «ricca cultura visiva del darwinismo», avendo assunto ormai il ruolo di prova cruciale della teoria evoluzionista. Intanto si sviluppano collaborazioni fra biologi, stampatori, collezionisti e artisti. In Germania, a Jena, il biologo darwinista Ernst Haeckel vuol fare della sua disciplina una «sintesi cosmica di scienza, religione e arte», dando un ruolo essenziale alle immagini, e facendo di quelle fetali un uso spregiudicato.
L’esposizione poi continua entrando nel merito delle diverse linee di ricerca, della concorrenza fra istituti, e stati, nella ricerca embrionale e nella storia della rappresentazione tramite modelli. Nuovi strumenti tecnici – in primis la fotografia, i raggi X – casi di studio, carriera di alcuni importanti ricercatori, esposizioni, conferenze, tanti diversi aspetti della visibilità fetale che permangono nell’ambito della storia della scienza e della conoscenza.
Il momento di svolta – come è noto agli studiosi – è il 1960, quando da un lato le immagini di feti vengono mostrate al grande pubblico – il caso esemplare è “la foto” di Lennart Nilsson sulla copertina di «Life» – dall’altro, vengono introdotte tecniche di imaging fetale per “monitorare” le gravidanze: «Introdotte per ottenere un maggiore controllo su tutte le gravidanze, le tecnologie di imaging hanno trasformato lo sguardo degli ostetrici e del pubblico verso i feti. Medici e chirurghi si sono occupati di parti difficili per secoli, ma la routine, fino al ventesimo secolo, è stata per lo più quella del parto in casa sotto il controllo delle levatici. Ai primi del Novecento gli ostetrici, cercando di ridurre l’ancora elevato tasso di mortalità materna, hanno spinto verso un maggiore controllo. Ciò ha comportato la cancellazione della distinzione tra nascite “normali” e “anormali”. Ogni gravidanza è diventata potenzialmente patologica e così i medici, in molti paesi, hanno affermato la necessità di una stretta attenzione medica e ad alta tecnologia, che può essere fornita solo negli ospedali».
Il resto è storia recente: testo e immagini accompagnano il visitatore attraverso le tappe di una cronologia più nota, come è noto che di nuovo le donne «saranno considerate l’ultima delle autorità sulla propria gravidanza». Dalla storia dell’ecografia – «finestra sul ventre»-, in modo efficace viene proposta la sintesi del dibattito sull’imaging – e il suo uso ostetrico, sociale, e popolare – delle battaglie civili per l’aborto, fino alle tecniche di fecondazione assistita, ai bambini in provetta, alla ricerca sulle cellule staminali.
Si può dire che l’immagine dell’embrione-feto va a significare ormai – di nuovo, e forse sempre di più – molte e diverse cose: «L’ecografia di un bambino in un album di famiglia, un nascituro in un cartello anti-abortista, un paziente per il monitoraggio e la chirurgia sperimentale, l’indesiderato sviluppo di qualcosa in un corpo di donna, materia prima per un esperimento scientifico? Oggetto o soggetto? Bambino, feto, aborto, embrione?». In tutto questo le immagini di feti hanno avuto un fondamentale ruolo di «potenti armi in controversie di alto profilo», «tuttavia, mentre le immagini di feti sono politicizzate e molto visibili, l’embriologia è stata portata come cosa ovvia nelle scuole, nelle cliniche e nei laboratori di tutto il mondo».
«Le immagini che vediamo sullo schermo del nostro computer strane eppure belle, cliniche eppure familiari, sono nuove da molti punti di vista. Ma le loro forme portano tracce di questa storia attraverso cui è stato costruito il nostro modo di vedere lo sviluppo dell’essere umano». Forse anche il nostro modo di considerare che cos’è un essere umano.