C’è un oleodotto che sfiora la questione curda, rieplosa in tutta la sua drammaticità dopo l’arrivo a Roma di Abdullah Ocalan, leader del Partito dei lavoratori curdo, terrorista sanguinario o eroe liberatore del suo popolo a seconda dei punti di vista. Dietro il vespaio diplomatico sollevato da questa vicenda e soprattutto allo spiccato interesse dimostrato dal Dipartimento di stato americano per il destino del capo del Pkk, non c’è solo la questione del terrorismo o dei diritti di 12 milioni di persone (solo in Turchia) di parlare la propria lingua. La vera posta in gioco è il tragitto che, fra nove anni, seguiranno ogni giorno 800 mila barili di greggio. E quindi la sicurezza di un oleodotto di 2000 chilometri su cui Washington conta moltissimo per definire la geopolitica della prima metà del prossimo secolo. Perché se la politica internazionale nel XX secolo è stata caratterizzata dai conflitti per la gestione dei pozzi petroliferi, negli anni a venire l’attenzione si sposterà sul controllo delle pipeline (le condotte) in cui scorre l’oro nero. Ecco perché il tracciato preciso del futuro oleodotto che collegherà Baku, sulle rive del Mar Caspio in Azerbaigian, a Ceyan, sulla costa mediterranea della Turchia, è una questione che mette in fibrillazione le cancellerie di mezzo mondo.
In realtà le ultime vicende giudiziarie di Ocalan sono solo l’ultimo capitolo di una storia iniziata almeno quattro anni fa. Infatti, proprio nel 1994, una ventina di grandi compagnie petrolifere occidentali iniziarono a investire nella regione caucasica: in Azerbaigian (nelle riserve “off shore” del Mar Caspio), in Turkmenistan e in Kazakistan (nelle riserve di greggio di Tengiz e di gas di Karachaganach). Il primo accordo venne stipulato il 20 settembre di quattro anni fa a Londra. Da una parte la joint venture occidentale, di cui fa parte anche l’italiana Agip, dall’altra la Compagnia petrolifera azera. Oggetto: il diritto di sfruttare per dieci anni i tre pozzi al largo di Baku, un affare da 10-12 miliardi di dollari. Ma se per l’estrazione l’accordo fu trovato, per il trasporto dei “tesori” del Caucaso verso i paesi occidentali era tutt’altra musica.
La scelta delle strade che il petrolio avrebbe seguito per giungere in Occidente fu subito rimandata, a testimoniare l’importanza strategica e le pressioni esercitate dalle potenze regionali. Appena tre mesi dopo l’accordo di Londra, la Russia invase la Cecenia, piccola repubblica caucasica di cui fino a quel momento Mosca aveva tollerato di buon grado le dichiarazioni di indipendenza e le attività malavitose. E ancora una volta sul piatto della bilancia c’era il controllo degli oleodotti. Il territorio ceceno è infatti attraversato da 130 chilometri di pipeline e dall’oleodotto che collega Tengiz, nel nord del Mar Caspio, al porto russo di Novorossisk sul Mar Nero.
Lo sviluppo dell’oleodotto Baku-Ceyhan ha un costo valutato attorno a quattro miliardi di dollari. Il suo tracciato originale, frutto di uno studio di fattibilità finanziato dalla Banca mondiale, non attraversa il Kurdistan. Ma in questo modo il percorso si allungherebbe e il costo del trasporto del greggio toccherebbe i quattro dollari a barile. Per questo motivo le 11 compagnie petrolifere maggiormente coinvolte nello sfruttamento dei pozzi del Mar Caspio, riunite nell’Azerbaigian International Operating Co.(Aioc) guidato dalla British Petroleum-Amoco, preferirebbero un tracciato più corto ed economico avvicinando il tratto orientale della pipeline al sud della Turchia. Così i costi di esercizio scenderebbero a due dollari a barile. Ma bisogna fare i conti con il Pkk che controlla quei territori. La decisione finale sul tracciato ha subito rinvii continui – alla fine è stata annunciata proprio per questi giorni – a testimoniare la difficoltà di conciliare la sicurezza e i costi dell’impresa con la geopolitica disegnata al Dipartimento di stato Usa.
D’altra parte anche la Turchia sembra tenere particolarmente al nuovo oleodotto. Non a caso ha voluto festeggiare il 75esimo anniversario della Repubblica ospitando ad Ankara i presidenti di Georgia, Kazakistan, Uzbekistan e Azerbaigian. Ed è proprio il presidente azero Heidar Aliyev, a dover formalmente prendere la decisione sull’oleodotto. Nell’occasione, Suleyman Demirel, presidente della Repubblica turca, ha firmato con i suoi colleghi una dichiarazione di sostegno per lo sviluppo dell’oleodotto Baku-Ceyhan, tutto con l’appoggio degli Stati Uniti (era presente il segretario del Commercio americano Bill Richardson).
La “via turca” è stata quindi proposta come arteria principale per l’esportazione in Occidente del greggio estratto dai pozzi del Caucaso. Un’alternativa alla pipeline russa con sbocco sul Mar Nero a Novorossisk, all’oleodotto che collega Baku a Supsa, un altro porto sul Mar Nero, e alla via iraniana. Un interesse ben comprensibile, quello di Ankara. Oltre a garantire le royalties sul passaggio del petrolio, il nuovo oleodotto eviterebbe l’ingorgo di petroliere nello stretto del Bosforo. Ed è questa la veste ambientalista con cui la Turchia difende il progetto Baku-Ceyhan (sempre sfruttando la scusa verde il governo ha preannunciato per il prossimo anno una stretta normativa per limitare il traffico di greggio via mare aumentando drasticamente il pedaggio).
Ecco quindi la fondamentale importanza strategica della regione intorno a cui, da 14 anni, è in corso la guerra non ufficiale dell’esercito turco contro il Pkk. Ed ecco una delle ragioni (forse la ragione) della durezza con cui il governo turco si è mosso nella vicenda Ocalan. Una durezza altrimenti difficile da spiegare (soprattutto da parte di un regime che fa ogni sforzo per dimostrare la sua democraticità in vista di un possibile e agognato ingresso nell’Unione europea) anche di fronte al più sanguinario dei terroristi. La Turchia deve garantire il pieno controllo dei territori di passaggio del greggio del Caucaso per convincere le compagnie occidentali a scegliere una via piuttosto che un’altra.