Satelliti che fotografano aree di territorio con risoluzioni spaziali di pochi metri, radar e magnometri che sondano il campo fino a profondità estreme, computer in grado di interpretare scritture di origine antica, sensori che attraverso l’umidità rivelano la presenza di città nascoste. Sono solo alcune delle innumerevoli tecnologie oggi usate nella ricerca archeologica. Chi pensava che l’archeologo dipendesse ancora dalla pala e dal piccone farebbe meglio a ricredersi. Oggi il lavoro di scavo è sempre più spesso anticipato o affiancato da una serie di strumenti che stanno conducendo il settore verso nuovi orizzonti.
Uno degli strumenti di cui l’archeologo del Duemila non potrà fare a meno è sicuramente il Ground penetrating radar (http://www.geovision.com/ground.htm). In campo geologico è utilizzato da tempo per sondare nuovi territori: è costituito da un gruppo centrale di alimentazione e da due antenne, la prima emette il segnale, l’altra invece lo riceve dopo che è stato riflesso dal terreno. Un computer portatile interpreta i dati in arrivo e registra tutte le presenze anomale sottostanti in formato digitale. In base al tempo impiegato dal segnale per raggiungere l’obiettivo è possibile rilevare la profondità a cui sono posti i siti archeologici.
Altrettanto fondamentale è diventato il sistema magnetografico, in grado di individuare quelle strutture che creano una variazione del campo elettromagnetico di base. Attraverso un complesso sistema di riflessione delle onde, anche i più piccoli reperti, come le ceramiche o i resti in metallo, possono essere localizzati dal sistema di rilevamento.
Ma oggi l’archeologo può servirsi di questi strumenti anche per l’analisi preliminare e predittiva. Gravimetri e sonde elettriche, per esempio, misurano le variazioni del campo gravitazionale o di elettricità e che sono in grado di segnalare eventuali anomalie: più i dati riscontrati si discostano dallo standard, più probabilità ci sono che il sottosuolo nasconda corpi estranei di massa considerevole.
Meno attuale, ma sempre valido e ancora molto usato, è il telerilevamento, cioè l’acquisizione di dati sull’ambiente per mezzo di sensori di vario tipo posti su un satellite o su un aereo. Il metodo, già usato in meteorologia, cartografia e agricoltura, si basa sul fatto che la presenza di siti archeologici dipende da una serie di caratteristiche ambientali, come la morfologia del territorio, il tipo di suolo, la vicinanza con l’acqua, la copertura vegetale o le condizioni climatiche.
E’ chiaro che le piste percorribili per trovare un sito archeologico sono davvero tante. Ma qual è il sistema più affidabile? “Abbiamo potuto osservare che se il terreno contiene acqua, risponderà meglio il sistema magnetico o elettrico, mentre nei siti urbani è più adatto il georadar, che permette di distinguere sotto l’asfalto strutture come i condotti o le tubazioni dalla presenza di resti archeologici”, spiega Salvatore Piro, primo ricercatore dell’Istituto di tecnologie applicate ai beni culturali del Consiglio nazionale delle ricerche di Roma. “Comunque, non sempre un singolo metodo è sufficiente a dare informazioni esaurienti”.
E’ evidente, allora, che una delle piste più gettonate è quella dell’integrazione. Al punto che alcune Università, soprattutto inglesi e statunitensi, hanno costruito dei veri e propri laboratori interdisciplinari. Si chiamano Remote sensoring center (http://deathstar.rutgers.edu) e si contraddistinguono per la loro apertura ai metodi di rilevamento del territorio adottati già da qualche anno da fisici e ingegneri. La novità è che in questi laboratori tutti i dati vengono inglobati attraverso il cosiddetto Geographic information system (http://www.tlma.co.riverside.ca.us/gis/gishist.htm) (Gis): un mezzo di elaborazione, molto simile a un data base, che permette di gestire e riassumere su una mappa l’enorme quantità di informazioni multimediali (dati, immagini, statistiche, ecc.) ricavate dagli studi.
Non solo. Oggi i ricercatori sul campo e quelli rimasti nei laboratori possono interagire in tempo reale. Lo dimostra l’esperimento condotto dagli studenti di archeologia dell’Università di Canberra, che possono seguire via Internet gli scavi che il loro professore Matthew Spriggs sta eseguendo su un’isola del Pacifico. Giorno per giorno il docente riassume tutti i dati raccolti attraverso un satellite collegato al sito web dell’Australian National University: in questo modo verranno aggiornati costantemente tutti i dati della ricerca, e gli studenti potranno provare il fascino di una vera e propria spedizione virtuale.