Far circolare le idee, le competenze, le esperienze e le persone. Per creare un “ecosistema di innovazione”, auspicando la creazione di una rete scientifica tesa a migliorare la qualità della ricerca stessa, ma anche per risparmiare soldi. Nella logica che da soli è bene, ma insieme è ancora meglio. Soprattutto se i singoli sono le zone più vive sotto il profilo dell’innovazione e della ricerca scientifica, quali quelle della regione asiatica e del Pacifico. Lì cioè dove si concentrano i giganti (scientificamente parlando) di Giappone, Stati Uniti, Canada, Australia e l’emergente Cina.
A suggerire come questo potrebbe realizzarsi sono Stephen J. Toope della University of British Columbia, Chorh Chuan Tan della National University of Singapore e Nina V. Fedoroff della Penn State University, in uno studio pubblicato su Science. In quello che somiglia a un sistema pensato per sfruttare e far convergere il merito e non a farlo migrare, per sempre, oltre i confini del proprio paese.
Un po’ in antitesi a quando sta succedendo invece oggi in Italia, come denunciato da Ignazio Marino e dal Premio Nobel Rita Levi Montalcini, che si sono appellati contro una norma del decreto legge su semplificazioni e sviluppo (ora legge). Quello che “cancella i principi di trasparenza e merito alla base delle norme, da me inserite nella finanziaria del 2007, che hanno consentito di finanziare i progetti di ricerca dei giovani scienziati under 40 attraverso il meccanismo della peer review, la valutazione tra pari”, scrive il senatore.
Il rischio è sempre la ben nota fuga dei cervelli. Cervelli che invece gli autori dell’articolo su Science pensano a come far muovere oltre i confini, nell’ottica di una condivisione di conoscenze. Ecco come e perché.
Promuovere i collegamenti ricercatore-ricercatore. La prima norma, fondamentale, è già da tempo tradotta in numerose iniziative di ricerca e workshop, patrocinate da reti come l’Association of Pacific Rim Universities, l’Universitas 21 e l’International Alliance of Research Universities. Purtroppo la struttura farraginosa e la carenza di fondi hanno impedito il decollo di collaborazioni internazionali su larga scala. Un canale di collegamento promettente è la Global Knowledge Initiative, un’organizzazione formata da scienziati e attiva a livello globale che si occupa di definire gli orizzonti di ricerca su cui puntare e le competenze richieste per un’innovazione frutto di collaborazione.
Collaborare con gli stranieri è conveniente. Non solo perché produce una ricerca di più alto impatto (dato l’incontro fra competenze complementari) ma anche sotto il profilo economico e di efficienza (in gruppo, per esempio, si riducono i costi delle attrezzature di laboratorio). Fondamentale anche l’interdisciplinarietà, cui spesso si rinuncia per ragioni di carriera, quando per esempio ai giovani ricercatori si consiglia un’attività concentrata nel loro campo di studi, nell’ottica di costruirsi una propria reputazione, di legare il proprio nome a un tema specifico. È vero che non tutti i settori accademici sono tenuti a entrare in collaborazioni estere, ma in molti studi – come quelli riguardanti problematiche globali – l’approccio internazionale e interdisciplinare possono essere determinanti.
Potenziare i “cluster” di innovazione. L’espressione cluster è usata nelle scienze sociali per indicare poli di ricerca in cui l’innovazione è rigogliosa e auto-sostenibile. Chiamati anche hub, sono stati riconosciuti per esempio nella Silicon Valley, a Tokyo e a Cambridge, e si appoggiano almeno a una grande università. Secondo gli autori dello studio su Science, l’ideale sarebbe che i cluster contassero su una rete coordinata di università, che “comprenda una massa critica formata da diverse tipologie di talenti”, rappresentabile come un “ecosistema di innovazione”. Le condizioni perché questo sogno possa realizzarsi sono un’esperta base imprenditoriale, necessaria per finanziare l’avviamento del progetto, e il libero scambio di idee tra i settori e le istituzioni, talvolta osteggiato dai timori di violazione della proprietà intellettuale.
Via wired.it
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