Ho dovuto vincere un certo ritegno prima di accingermi a scrivere questo ricordo di Paolo Rossi, scomparso lo scorso gennaio all’età di 88 anni, soprattutto perché non appartengo alla comunità degli storici o filosofi di professione, e neppure dei giornalisti in qualche modo titolati a parlare dei personaggi della nostra cultura. Proprio perché non “ufficialmente” qualificato a scrivere su di lui, più che incamminarmi nel difficile tentativo di illustrare un profilo esauriente della sua opera intellettuale, dirò di quello che hanno significato per me, storico della scienza quasi per caso, la lettura delle opere di Rossi, e le occasioni in cui ho avuto modo di ascoltare la sua voce. Fino all’ultima, nell’ottobre scorso, quando a Firenze le sue parole le ho ascoltate in absentia (Rossi era malato, probabilmente della malattia che lo ha portato alla morte pochi mesi dopo, e il suo intervento scritto è stato letto da altri).
La prima volta che ebbi un contatto personale con Paolo Rossi fu nel novembre del 2003, nella circostanza della presentazione di un libro sulla storia della elettrofisiologia che avevo scritto insieme a Marco Bresadola. In uno come me (studioso sperimentale di fisiologia del sistema nervoso, che per la prima volta pubblicava un libro di carattere “umanistico”) l’ardire di chiedere a un grande intellettuale come Rossi di presentare il nostro volume era stato stimolato dal fatto che egli aveva scritto qualche tempo prima una recensione del libro nella sua famosa rubrica nel domenicale del Sole24Ore. Capii poi le ragioni per cui egli aveva accettato l’invito, nonostante l’età non più giovanile (aveva allora 80 anni) e la relativa estraneità dei suoi interessi alle tematiche del nostro libro (le rane di Galvani, la pila di Volta con quel che ne seguì). La presentazione aveva luogo nell’Istituto di Fisiologia di Via San Zeno, istituzione ai nostri tempi piuttosto marginale nel panorama scientifico nazionale ed internazionale, ma che era stata fino gli anni Settanta del Novecento uno dei centri più importanti al mondo della ricerca nell’ambito delle neuroscienze. Era l’Istituto del grande neurofisiologo Giuseppe Moruzzi, che l’aveva diretto a partire dal 1949, quando – rientrato dagli Stati Uniti – si era dedicato con incredibile vigore all’impresa di far rinascere gli studi neurofisiologici in un paese stremato dalla guerra. Moruzzi aveva allora appena compiuto, insieme al fisiologo americano Horace Magoun, alcune ricerche fondamentali sulla fisiologia cerebrale, ricerche sviluppate a Pisa negli anni successivi, con risultati molto importanti, che avrebbero attratto numerosi ricercatori dall’Italia e dall’estero, facendo dell’Istituto di Via San Zeno uno dei poli mondiali della ricerca neurofisiologica.
Rossi aveva conosciuto Moruzzi (penso soprattutto nel corso delle riunioni dell’Accademia dei Lincei di cui erano entrambi soci) e aveva per lui una grandissima stima, e questa fu probabilmente la ragione per cui accettò volentieri di venire nell’Istituto di Pisa a presentare il libro mio e di Bresadola. Le parole che disse su Moruzzi, sia durante che dopo la presentazione, esprimevano un’ammirazione molto forte e sincera per il grande fisiologo. Questo mi aiutò a vincere le esitazioni che io avevo nel rivolgermi a lui, Rossi (mostro sacro per un principiante come me nella storia della scienza). Innanzitutto perché vedevo che egli aveva per la scienza una grandissima considerazione (cosa paradossalmente molto rara tra gli storici e filosofi della scienza moderni, impegnati come spesso sono in esercizi abbastanza scontati di decostruzione della scienza – e di qualsiasi altro serio sforzo intellettuale). E poi anche perché veder Rossi farsi umile nel parlare di «quel grand’uomo che era Moruzzi» (queste son sue parole che rammento bene) mi aiutò a vincere la timidezza che avevo verso di lui. Parlò di un suo zio, Gilberto Rossi, fisiologo come Moruzzi, e fu molto contento quando la dottoressa Livia Iannucci, gentile bibliotecaria dell’Istituto, fu sollecita nel ritrovare, tra i volumi delle Archives Italiennes de Biologie (la rivista storica della biologia italiana diretta da Moruzzi per molti anni) il ricordo di Gilberto Rossi che Moruzzi aveva scritto nel 1960, all’indomani della sua morte.
Il riferimento a Moruzzi e alla presentazione in via San Zeno mi aiutano a esprimere quello che uomini della statura di Rossi, Moruzzi e altri grandi intellettuali della loro generazione hanno rappresentato per il nostro paese, non solo, e non tanto, nell’ambito specifico dei lori studi, ma anche in dimensioni più ampie. Non è un caso – come sottolineava uno storico americano, proprio nell’occasione di un convegno su Galvani – che l’Italia abbia un culto molto forte per i grandi uomini di cultura (e ora – si spera – anche per le grandi donne). A questo contribuiscono enza dubbio le complesse vicende che, a partire dal Medioevo, hanno fatto della cultura un elemento di unificazione, un collante ideale, tra i vari popoli della penisola, caratterizzati com’erano da percorsi storico-sociali significativamente diversi. Di Moruzzi qualcuno ha scritto che la sua semplice presenza costituiva di per sé un elemento importante di conforto e stimolo ai giovani studiosi italiani che negli anni del secondo dopoguerra si dedicavano agli studi fisiologici. Questo soprattutto perché essi capivano come, anche in un paese come il nostro, con poche risorse dedicate alla scienza (e, più in generale, agli studi), si poteva giungere ai grandi livelli internazionali della ricerca scientifica; un antidoto dunque era la presenza di Moruzzi al vittimismo, non certo ingiustificato, che a volte paralizza gli impeti pur baldanzosi di molti giovani.
Più ancora del grande piacere intellettuale e dell’ampliamento degli orizzonti culturali che la lettura dei suoi libri mi schiudeva, questo era per me il significato profondo di Paolo Rossi, uomo dalla cultura immensa, dalle idee straordinariamente lucide, dagli interessi mai settoriali e dall’amore sincero per la scienza che per lui, allievo di Eugenio Garin, aveva rappresentato il collegamento tra Rinascimento e Modernità. Rinascimento che fu epoca non solo di risveglio filologico per gli studi del mondo classico, ma anche momento della fioritura di nuove macchine e dell’ingresso del sapere tecnico e manuale degli artefici nel territorio di una scienza che era vista ancora come filosofia speculativa; fase di grande penetrazione della cultura magica, con la duplice e interconnessa valenza di dimensioni esoteriche e attitudine manipolativa sul reale, che troverà – nella visione di Francis Bacon – il suo sviluppo storico ideale proprio nella scienza moderna.
Attraverso Bacon – uno dei personaggi da lui più studiati – Paolo Rossi rivendicava, contro una visione limitata e di campo di molti scienziati (che fa da contrappunto a una altrettanto ristretta attitudine di molti storici e filosofi della scienza), l’importanza per il progresso storico della scienza di personaggi (e fattori) extra-scientifici. La scienza non si sviluppa solo per dinamiche interne – questo Rossi lo ribadiva frequentemente – e, se è pur vero che Bacon (come del resto un secolo più tardi Diderot), non fece scoperte scientifiche significative (né inventò nuovi prodigi della tecnica), sarebbe del tutto improprio dire che egli non contribuì allo sviluppo storico della scienza moderna. La riflessione su Bacon permetteva a Rossi anche di sfatare quel mito storiografico, sviluppatosi a seguito del successo in epoca moderna delle cosiddette scienze galileiano-newtoniane, secondo cui la scienza si ridurrebbe a pochi settori fortemente matematizzati (matematica ovviamente, e poi fisica, astronomia, e geometria con le varie sotto-diramazioni, come per esempio l’ottica geometrica), le scienze considerate classiche perché già in epoche antiche raggiunsero lo statuto epistemologico specifico della conoscenza scientifica.
Rossi ci ricordava che, se tutto si riducesse a questo – come tra gli altri pretendeva Alexandre Koyré – allora, non solo sarebbero escluse dal novero della scienza molte delle discipline più importanti del panorama contemporaneo (basti pensare alle neuroscienze e alla chimica), ma non sarebbe neppure facile inquadrare una delle più grandi conquiste della cultura moderna, la teoria dell’evoluzione. Teoria che viene fuori dallo sviluppo storico di quelle scienze di raccolta sperimentale lunga e faticosa e di classificazione dei dati. Operazioni queste per loro natura apparentemente poco consone agli slanci di menti genialmente matematizzanti e che, però, culminarono nelle idee rivoluzionarie (e straordinariamente geniali) di un giovane con la passione per alcuni strani animaletti, i cirripedi: Charles Darwin.
Nella visione di Paolo Rossi non solo si infrange questa distinzione netta e classista tra scienze matematizzanti e scienze della sperimentazione e classificazione, ma anche – e soprattutto – viene meno la stessa distinzione rigida che vi è tra la storia della scienza in senso stretto e la storia a un livello più ampio e generale. L’importanza, per lo sviluppo della scienza moderna, della cultura magica e delle macchine, la ricerca di una conoscenza assoluta del mondo, fondata sull’idea di un ordine assoluto e armonico, conoscenza a cui si giunge individuandone il principio, la “chiave universale”, la cosiddetta ars magna e le sue connessioni con il mito della sapienza primitiva (la prisca sapientia) appartenuta a Mosé e agli ebrei, o forse a Ermete Trismegisto e ai maghi egiziani (ma che rappresentò un punto di riflessione forte per la cultura occidentale quando venne a contatto – soprattutto attraverso i gesuiti – con l‘antichissima cultura cinese), la scoperta, sorprendente per l’umanità, che il mondo naturale non era stato creato solo seimila anni prima di Cristo (rimanendo poi sostanzialmente immutato), ma era molto più antico e aveva una sua storia complessa, dai tempi immensamente più vasti. Ecco alcune delle cose che Paolo Rossi ci ha insegnato, e che sono altrettanto interessanti per la cultura scientifica che per la cultura storico umanistica.
Come accadeva per molti grandi intellettuali della sua generazione, l’insegnamento culturale (nelle sue varie e ampie articolazioni) era nel caso di Paolo Rossi caratterizzato da una sicura dimensione etica. Egli era assolutamente alieno da quelle tecniche della comunicazione in cui eccellono molti pseudointellettuali moderni, che sviluppano le loro teorie misurandole sul grado di scandalo (e per conseguenza di interesse nei mass-media) che sono capaci di provocare. Come – ma è solo un esempio – un italiano, ora professore in una importante università americana, che è giunto a sostenere la tesi secondo cui Galileo sarebbe stato soprattutto un cortigiano, e avrebbe creato la scienza moderna per prevalere nelle discussioni alla corte medicea.
Pur aperto alla libertà della ricerca intellettuale, e a culture diverse da quella della quale si era nutrito, Rossi rifiutava decisamente il relativismo ideologico che domina alcuni settori della cultura contemporanea. Nel suo libro più recente, parlando del “confronto interculturale” ritenuto da non pochi intellettuali moderni «principio necessario e sufficiente alla soluzione dei problemi della storia umana», egli si chiedeva provocatoriamente: «Si può davvero pensare a un confronto interculturale con chi ritiene negri ed ebrei esseri più simili agli animali che agli uomini, che teorizza la guerra tribale, il dominio di un’etnia, il diritto di sterminio del nemico razziale?». E aggiungeva poi: «Un conto è lo sforzo di comprensione e un conto il confronto interculturale. Pluralismo, tolleranza, rispetto per le minoranze, attenzione ai loro diritti non possono essere oggetto di trattative. Si possono solo esercitare pressioni (le più forti e decise e anche le più “ricattatorie” possibili, perché quei valori vengano rispettati là dove non lo sono».
In una fiducia malgré tout ottimistica per la forza della cultura e della civiltà occidentale (suggerita forse dalla sua saggezza di intellettuale che ha visto passare nella sua non breve vita tante mode), concludeva poi, non senza una nota di ironia: «All’interno della cultura occidentale numerosi intellettuali possono rifiutare, contestare, deprecare, condannare la loro propria cultura nonché vergognarsi del mondo di istituzioni e di idee entro il quale operano e vivono e pubblicano articoli e libri. Possono simpatizzare per culture altre e diverse. Non è male che sia così. Quelle deprecazioni sono anche stimoli a una crescita e a un miglioramento della società e sono contemporaneamente l’indiscutibile prova provata della piena appartenenza dei sunnominati intellettuali all’Occidente. Infatti solo ed e esclusivamente nella da loro deprecata civiltà occidentale questi atteggiamenti vengono non solo tollerati, ma valutati e di conseguenza accettati come segni positivi».
Contro molti degli intellettuali moderni che affidano alla supposta brillantezza delle loro arguzie e all’anticonformismo provocatorio delle loro idee, una lezione importante che Paolo Rossi ci trasmette, con la sua vastissima opera di protagonista della cultura moderna in una dimensione decisamente internazionale, è che il genio è frutto soprattutto di un lunga fatica. Così si conclude infatti il testo del suo intervento dell’ottobre scorso a Firenze, nell’occasione della pubblicazione di un volume dedicato all’opera scientifica di Bacon, in cui egli si era lasciato andare a qualche considerazione autobiografica: «Madre natura mi ha dotato di una discreta dose di senso dell’umorismo. Mi è sempre piaciuta la citazione da Esopo alla quale si è richiamato più volte Francis Bacon: “Quanta polvere sollevo!”, diceva la mosca che si era collocata sull’asse della ruota di un carro. Può darsi che io abbia dato espressione al mio narcisismo senile. Ma solo la certezza di aver sempre molto lavorato è qualcosa che rende meno intollerabile la vecchiaia». Con queste parole si chiudeva quello che quasi certamente è stato l’ultimo intervento pubblico – seppure mediato – di Paolo Rossi.
Per quel che mi riguarda, vorrei però terminare tornando a quell’Istituto di Fisiologia in cui per la prima volta ebbi occasione di incontrarlo, e ricordare un altro momento della storia di quel luogo che ha, come vedremo, un’attinenza – seppure ideale – con Paolo Rossi e con la sua vita vissuta tra le due culture. La scena si svolge nel mese di giugno del 1971, poco dopo le otto del mattino. Da Moruzzi si è recato Mario Tobino, l’inquieto medico scrittore, psichiatra e amico del fisiologo. I due discutono delle ultime ricerche della scuola di Moruzzi sulla fisiologia del sonno. Intellettuale anch’egli senza confini ristretti, il fisiologo illustra la sua concezione del sonno come pulsione attiva, come istinto, facendo riferimento – per contraddirla – all’idea leopardiana del sonno come anticipazione della morte; e cita a memoria un brano del Canto del gallo silvestre.
Poi la visita alla biblioteca, orgoglio di Moruzzi, che con l’aiuto dei fondi americani aveva potuto ricostruirla dopo i disastri bellici, acquistando molti volumi e tutte le riviste fondamentali della fisiologia internazionale fin dal primo fascicolo, spesso cercando con fatica tra gli antiquari di tutto il mondo. Infine i due si incamminano, discorrendo di scienza in senso ampio, tra i laboratori e stabulari, con i giovani ricercatori impegnati in lunghi e faticosi esperimenti. Poi – riferisce Tobino – «Moruzzi, che è un umanista, citò il Manzoni». È l’occasione per lo psichiatra-scrittore di parlare delle sue letture dei recenti volumi della Corrispondenza del Manzoni, con il fisiologo che ascolta “rapito”.
Ecco, ora che anche Paolo Rossi non è più tra di noi, a me piace pensarlo tra i corridoi, o forse nella biblioteca di Via San Zeno, insieme a Moruzzi e Tobino, a parlare di scienza, di letteratura, di psichiatria (di cui Rossi era appassionato cultore), tre grandi figure della cultura del Novecento, che si allontanano con discrezione (e magari con un sorriso), lasciando dietro di loro una grande eredità e un grande vuoto.
Marco Piccolino è membro del Centro di Neuroscienze dell’Università di Ferrara
Nell’immagine: Paolo Rossi nel 1970 accanto alla statua di Francis Bacon nel Trinity College di Cambridge.
Questo articolo è stato pubblicato sul numero Sapere di Aprile 2012 con il titolo “Paolo Rossi, un grande del Novecento”. Ecco come abbonarsi alla rivista.