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Rigassificare conviene?

di
Robera Pizzolante

Sono considerati la strada, o una delle strade perlomeno, per liberare l’Italia dalla dipendenza energetica. Eppure c’è chi i rigassificatori proprio non li vuole. Da nord a sud sono molti i comitati di cittadini in preda all’effetto Nimby (Not in my back yard, ovvero “non nel mio cortile”). Troppo pericolosi, inquinanti e poco convenienti in termini di posti di lavoro. Insomma, la spesa non vale l’impresa. E’ il caso di Taranto dove è in corso una petizione popolare contro la costruzione di un rigassificatore sul porto mercantile da parte dell’azienda iberica Gas Natural. Ma anche di Brindisi e di Livorno, il cui “Comitato contro il rigassificatore offshore” presenterà il prossimo 15 giugno a Roma un appello al nuovo governo per la moratoria sulla messa in funzione di impianti energetici a combustibili fossili.I rigassificatori riportano in forma aerea il gas naturale allo stato liquido (Gnl) proveniente via mare, su navi gasiere, da paesi come Nigeria, Egitto, Indonesia, non collegati al nostro con una pipeline.

Al momento in Italia ne è attivo solo uno dell’Eni, a Panigaglia (La Spezia) e un altro è in costruzione al largo di Rovigo. Ma ne sono previsti altri per limitare la dipendenza del paese dalle forniture via gasdotto da Algeria, Libia, Olanda, Norvegia e dalla Russia. Come quello di Taranto. Sebbene non sia ancora stato autorizzato ufficialmente, è bastato che la Regione mostrasse qualche apertura al neo ministro delle Attività Produttive Pierluigi Bersani, che promette sgravi fiscali e incentivi ai comuni che ospitano simili strutture, per infiammare le proteste.

“Taranto è una città controindicata per un impianto sottoposto alla direttiva Seveso. Sarebbe il decimo a rischio di incidente rivelante, a poche centinaia di metri da Ilva e Agip, con il pericolo di fuoriuscite di vapori di metano infiammabili e di un effetto domino”, spiega Emiliano Ponzio, membro dell’Assemblea permanente per l’Ambiente e la Sicurezza di Taranto. “Che il rischio sia reale lo dicono alcuni studi: uno condotto dalla Commissione Energia californiana nel 2003 per la città di Oxnard sostiene che nel caso di rottura dei contenitori di simili impianti si sprigionerebbe una nube di gas per un raggio di 55 km; un rapporto del Pentagono del 1982, invece, sostiene che la fuoriuscita del 9 per cento del carico di Gnl di una nave gasiera può trasformarsi in una nube in grado di espandersi fino a 22 Km di distanza”.Rilevante anche l’impatto paesaggistico e ambientale.

L’impianto sarebbe costituito da due grandi serbatoi da 140 mila metri cubi ciascuno e un’altezza di 51 metri e il dragaggio dei fondali necessario a far passare le navi metaniere riporterebbe in superficie una grande quantità di fanghi stoccati dalle industrie. “Inoltre arriverebbero circa 110 navi gasiere l’anno, della stazza di 130.000/140.000 tonnellate, con la conseguenza di una vera e propria paralisi a fronte di un impiego di forza lavoro che sicuramente sarà inferiore alle promesse”, conclude Ponzio.

Stesse motivazioni animano i cittadini di Brindisi, dove un altro impianto è stato autorizzato, e quelli di Pisa e Livorno. Qui a 12 miglia dalla costa, nel bel mezzo del Santuario dei cetacei, il Ministero dell’Ambiente sta per autorizzare un impianto off-shore e un altro è previsto a terra, nel comune di Rosignano, a soli 20 Km da Livorno. “Da un punto di vista energetico i rigassificatori non hanno senso”, spiega Massimo De Santi, fisico ed ex responsabile settore energetico Arpa Toscana. “Basta pensare agli sprechi dell’intero processo.

Dal momento in cui il gas viene estratto, poi liquefatto a meno 160 gradi e caricato sulle navi, dove viene mantenuto a questa temperatura, fino all’arrivo in un impianto di rigassificazione in Italia per tornare allo stato gassoso, si consuma il 20-25 per cento dell’energia iniziale. Secondo l’Eni, inoltre, nel 2007 l’offerta di gas metano supererà la domanda italiana di 7 milioni di metri cubi”. Allora a che serve costruire rigassificatori?

“Non al fabbisogno del paese. E’ una strategia politica per tentare di fare dell’Italia una piattaforma logistica del gas, vendendo il surplus in Europa ed entrando così nel business della liberalizzazione del mercato energetico. Un affare per pochi, quindi, che però si basa su previsioni azzardate. Non è detto infatti che i paesi da cui si prende il metano ce lo garantiranno per sempre e ai costi bassi di oggi”.

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