30 luglio 2009. L’Agenzia Italiana del Farmaco ha detto sì: da settembre prossimo, anche in Italia, come succede in tutto il resto d’Europa (Irlanda esclusa), le donne potranno decidere se avvalersi della pillola abortiva RU486. In questo articolo del 2008 Silvio Viale, primo sperimentatore in Italia del mifepristone, spiega perché è una buona notizia per le donne e per la società italiana.
A venti anni dalla sua introduzione in Francia e in Cina, la pillola abortiva RU486 continua a essere scoraggiata in Italia da polemiche pretestuose. La situazione tuttavia è destinata a mutare perché la Exelgyn, l’azienda francese produttrice del farmaco, ha attivato la procedura di mutuo riconoscimento sulla base delle raccomandazioni della Commissione Europea [1]. Così alla fine di febbraio 2008, l’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) ha dato un parere tecnico-scientifico favorevole al mifepristone – questo il nome della molecola – e il farmaco sarà presto utilizzato anche in Italia per l’aborto e gli altri orientamenti della ricerca scientifica (E’ atteso entro venerdì, 19 dicembre 2008, il parere del Consiglio di Amministrazione dell’AIFA; l’ultimo atto prima della commercializzazione del farmaco, N.d.R.).
Come farmaco abortivo la RU486 è registrato in 15 paesi dell’Unione Europea (Austria, Belgio, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Lettonia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Regno Unito, Slovenia, Spagna, Svezia, Ungheria) ed è prossimo a esserlo in Portogallo, Ungheria, Slovacchia e Italia. Inoltre, è registrato in Norvegia, Israele, Tunisia, Russia, Svizzera, Ucraina, USA, India, Cuba, Taiwan, Nuova Zelanda, Sud Africa e Cina. Dalla sua introduzione, nel 1988, circa un milione e mezzo di donne sono state trattate in Europa, decine di milioni in Cina, e negli USA sono 650.000 le donne che lo hanno assunto dal 2000. Nel 2005 l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha inserito il mifepristone nella lista dei farmaci essenziali [2]. Come antiprogestinico e anticorticosteroide è oggetto di ricerche cliniche in ambito ostetrico, ginecologico, oncologico, endocrinologico e psichiatrico [3].
Come un aborto spontaneo
L’aborto medico è un’opzione non chirurgica per le donne che intendono interrompere la gravidanza. In pratica, viene indotto un aborto “spontaneo”, nel senso che l’uso del mifepristone e, due giorni dopo, di una prostaglandina ne riproduce la stessa sintomatologia. Anche se il metodo è utilizzabile sia per il primo che per il secondo trimestre, per aborto medico si intende quello precoce, quello cioè fino a 49-63 giorni dall’ultima mestruazione. Con l’aumentare dell’epoca gestazionale l’efficacia si riduce e la sintomatologia aumenta. Il dolore e le perdite ematiche, che impegnano buona parte delle polemiche, poche volte sono determinanti nella scelta del metodo.
L’unico criterio di inclusione per l’aborto medico è la presenza di una gravidanza intrauterina entro i limiti gestazionali stabiliti, che è anche l’unico criterio da soddisfare anche per l’aborto chirurgico. Le poche controindicazioni sono l’ipersensibilità ai principi attivi o agli eccipienti, l’insufficienza renale cronica, l’asma severa non trattata e la porfiria ereditaria. Sono considerate condizioni a cui fare attenzione una patologia cardiaca, una patologia cerebrovascolare, l’asma, l’anemia severa, le gravi coagulopatie, il concomitante trattamento con anticoagulanti, la malnutrizione, l’insufficienza renale e l’insufficienza epatica.
Lo schema di somministrazione prevede una dose di mifepristone da 200 o 600 mg per via orale insieme a una prostaglandina (1 g di gemeprost per via vaginale o 400-800 mcg di misoprostol per via orale, vaginale, sublinguale o buccale). Il mifepristone prepara il terreno e la prostaglandina, somministrata due giorni dopo, provoca l’espulsione del materiale abortivo entro poche ore. In una piccola parte dei casi l’espulsione può verificarsi già prima dell’assunzione della prostaglandina o nei giorni successivi. Una seconda dose di prostaglandina riduce la percentuale di espulsioni tardive e aumenta l’efficacia. I sintomi sono riconducibili quasi completamente agli effetti della prostaglandina.
Il dolore, di tipo crampiforme, può variare da nulla a forte, e aumenta in prossimità dell’espulsione, riducendosi nettamente subito dopo. Nausea, vomito e diarrea possono essere presenti in un quinto dei casi. Il sanguinamento, massimo al momento dell’espulsione, è variabile per quantità e durata, con perdite ematiche che persistono per almeno una settimana e, in forma ridotta, anche più a lungo. È questo l’elemento più critico per il follow-up e per l’accettabilità del metodo. Il dolore e il sanguinamento dipendono dall’epoca gestazionale: sono minimi a cinque settimane, quando la camera ovulare è di circa un centimetro con un embrione non evidenziabile o di pochi millimetri, e sono ovviamente maggiori a nove settimane, quando la camera ovulare è di tre-quattro centimetri con un embrione di circa 22 millimetri. Sulla base della mia esperienza diretta, fino a sette settimane, un terzo delle donne riferisce sintomi inferiori o analoghi a quelli del flusso mestruale, un terzo sintomi di poco superiori e un terzo sintomi decisamente maggiori. Complessivamente, il 90 per cento delle donne considera i sintomi sopportabili.
Contrariamente a quanto si crede, anche nell’aborto chirurgico i sintomi possono essere importanti e possono persistere a lungo, sebbene il dolore immediato sia attenuato dall’anestesia. Poco si sa sul follow-up dell’aborto chirurgico poiché le schede ISTAT sono compilate poche ore dopo l’intervento, al momento della dimissione, e non rilevano le complicazioni successive. In ogni caso, i rischi infettivi sono maggiori e la ritenzione di materiale, che può portare a un secondo intervento, è più comune di quanto sia riferito. Senza contare i rischi, seppure bassi, di perforazione dell’utero e di lacerazioni. La riduzione dei livelli di emoglobina è analoga per i due metodi, nonostante la percezione delle perdite ematiche sia diversa.
L’importanza di poter scegliere
In realtà, tra aborto medico e aborto chirurgico non esiste una scelta migliore in assoluto, ma quella che è percepita come migliore nel singolo caso e nelle condizioni offerte. Decenni di offerta esclusiva dell’aborto chirurgico lo hanno reso familiare e hanno centrato su di esso tutto l’aspetto organizzativo, mentre l’aborto medico implica una nuova mentalità e una nuova organizzazione. Se si considera che i test di gravidanza in commercio sono già positivi nei primi giorni di mancato flusso, si comprende come la decisione di abortire possa essere presa a partire da quattro o cinque settimane di gestazione. Solitamente, l’intervento chirurgico arriva dopo un’attesa di almeno tre settimane dal momento della decisione e finisce per assumere il significato di un evento liberatorio. Senza considerare la presenza di possibili sintomi della gravidanza. Per questo molte donne accolgono con favore la possibilità di un aborto farmacologico che evita attese lunghe, spesso psicologicamente e fisicamente difficili. Oltre che per evitare l’attesa, a favore dell’aborto medico precoce vi sono anche ragioni mediche e sanitarie, trattandosi di una procedura meno invasiva, praticabile in qualsiasi ambulatorio. In questo modo vengono gestite in sala operatoria solo le complicazioni, che crescono con l’aumentare delle settimane di gravidanza. Infine, l’aborto medico può risolvere il problema dei rischi, ma soprattutto dei timori, dell’anestesia e dell’intervento chirurgico, che, seppure spesso esagerati, non sono eliminabili con semplici rassicurazioni.
La cosa più importante è che entrambi i metodi sono molto sicuri: l’aborto medico è un’alternativa a quello chirurgico, e viceversa. Fondamentale è potere avere a disposizione opportunità precoci sia mediche sia chirurgiche. Per entrambi i metodi in tutti gli studi gli indici di soddisfazione sono intorno al 90 per cento con le stesse percentuali di donne che riutilizzerebbero lo stesso metodo e lo consiglierebbero a un’amica. Quasi mai la scelta del metodo è legata ai sintomi. Chi sceglie l’aborto medico vuole evitare l’intervento chirurgico e l’anestesia, lo considera più naturale, lo ritiene più intimo e più autonomo ed è disponibile a essere coinvolta nella procedura. Non bisogna dimenticare che nell’aborto medico è la donna che compie il gesto abortivo, assumendo da sola il farmaco, ed è lei che vivrà il momento dell’espulsione. Spesso, però, il motivo principale della scelta è solo quello di poterlo fare in tempi più rapidi. Chi sceglie l’aborto chirurgico, viceversa, è rassicurata dal fatto che sia un altro a eseguire l’aborto, che tutto si esaurisca con un intervento sotto anestesia.
Il parere dell’EMEA
Nel giugno del 2007 la Commissione Europea ha approvato le raccomandazioni dell’European Medicine Agency (EMEA) per uniformare le indicazioni di questo farmaco nei diversi paesi dell’Unione Europea. Sebbene debbano essere considerate alla luce delle leggi e dei regolamenti vigenti in ogni paese, esse costituiscono un importante riferimento sanitario per i paesi membri. La RU486 può essere usata per la IVG medica fino a 63 giorni di amenorrea, per la preparazione della cervice uterina prima della IVG chirurgica, per la preparazione all’azione degli analoghi della prostaglandina nella ITG medica (il cosiddetto “aborto terapeutico”), per l’induzione del travaglio in caso di morte fetale in utero.
Per l’aborto medico il protocollo prevede tre tempi: una prima visita in cui alla paziente viene somministrato mifepristone, una seconda visita dopo 36-48 ore per l’assunzione della prostaglandina e una terza visita di follow-up entro 14-21 giorni dalla somministrazione del mifepristone. Per il trattamento non è previsto alcun ricovero. Dopo l’assunzione del mifepristone la donna torna a casa, senza che alcuna prescrizione particolare. Il rischio di espulsione prima dell’assunzione della prostaglandina è stimato in circa il 3 per cento. Dopo l’assunzione della prostaglandina è previsto che la paziente sia monitorata per tre ore presso il centro di trattamento. Nel foglio illustrativo è però scritto che la donna “dovrebbe rimanere a riposo a casa per tre ore dopo aver preso la prostaglandina”, avallando così la pratica sempre più diffusa di assunzione domiciliare del misoprostol.
Sin dal 2001 l’ANAES (Agence Nationale d’Accréditation et d’Evaluation en Santé) attribuisce il grado di evidenza A, cioè quello più alto, per l’assunzione del misoprostol a casa fino a 49 giorni [4]. Con i regimi proposti l’efficacia dell’aborto medico fino a 63 giorni è stimata attorno al 95 per cento e il gemeprost è considerato più potente del misoprostol. Secondo le conclusioni dell’EMEA contrazioni uterine e crampi si verificano nel 10-45 per cento dei casi e il sanguinamento vaginale dura in media 12 giorni, con un sanguinamento abbondante che si verifica in circa il 5 per cento dei casi e con un rischio di raschiamento emostatico di 0-1,4 per cento. Il rischio di espulsione incompleta è di 1,3-4,6 per cento e quello di persistenza della gravidanza di 0-1,5 per cento. Il rischio complessivo di fallimento dell’aborto medico (persistenza gravidanza + espulsione incompleta + raschiamento emostatico) varia tra 1,3 e 7,5 per cento. Infezioni successive all’aborto, sospettate o confermate, si verificano in meno del 5 per cento.
Nel definire dosi e protocolli, prudentemente, l’EMEA ha preso atto di quanto già approvato nei paesi dell’Unione Europea, con l’unica eccezione della riduzione della dose di mifepristone a 200 mg, sempre più utilizzata in pratica da quando ampi studi multicentrici dell’OMS hanno confermato l’equivalenza con i 600 mg [5-6]. Anche se l’EMEA avrebbe potuto spingersi oltre e accogliere altre indicazioni innovative dell’OMS [7-8-9] o delle principali società scientifiche [4-10-11], il risultato sarà quello di indurre i paesi europei ad ampliare le proprie autorizzazioni. La direzione inevitabile sarà verso la riduzione definitiva a 200 mg della dose di mifepristone, la sostituzione del gemeprost con il misoprostol e un ulteriore impulso alla ricerca di nuovi protocolli verso l’accorciamento o la somministrazione contemporanea dei due farmaci.
La questione del Clostridium sordellii
Il Clostridium sordellii è un batterio anaerobico del terreno e del tratto intestinale accusato di aver causato la morte di alcune donne che si erano sottoposte ad aborto medico. La questione riguarda la segnalazione di alcuni decessi: cinque attribuiti al Clostridium sordellii (di cui uno in Canada e quattro in California) e uno al Clostridium perfrigens. Il caso canadese risale al 2001 [12-13], mentre i quattro casi californiani si sono verificati tra il settembre 2003 e il giugno 2005 [14-15]. Quello attribuito al Clostridium perfrigens è del marzo 2006 [16]. Il batterio Clostridium sordellii è presente nella flora vaginale con percentuali che variano da 0,1-0,5 per cento [17] a 5-10 per cento [18].
Con tali prevalenze, negli USA un numero variabile tra 600 e 60.000 di donne portatrici del Clostridium sordellii sarebbe stata sottoposta ad aborto medico con solo 4 casi di infezioni mortali [19]. D’altronde, prima che esplodessero le polemiche, una review su 63 studi, 46.421 donne, aveva confermato un basso rischio di infezione per l’aborto medico: 0,98 per cento [20], con percentuali di 0,21 per cento per il misoprostol orale, di 1,31 per il misoprostol vaginale e di 1,51 per il gemeprost. Per l’aborto chirurgico i rischi infettivi variano dallo 0,1 al 4 per cento [21], fino al 10 per cento per il RCOG (Royal College of Obstetricians and Gynaecologists) [10]. L’EMEA indica nel 5 per cento il rischio di infezione per l’aborto medico e definisce “rarissimi” i casi di shock tossico fatale causati da Clostridium sordellii, escludendo il nesso potenziale con il mifepristone.
L’epidemiologia delle infezioni da Clostridium sordellii è poco chiara, perché i casi di infezione grave sono rari e riguardano diverse discipline. In una review del 2006 sono elencati 45 casi, da 17 giorni di età a 95 anni, con una mortalità complessiva di 31 su 45, che diventa del 100 per cento per i 15 casi di ostetricia: otto casi post-partum, due per aborto spontaneo e cinque per aborto medico [22]. In passato il Clostridium sordellii è stato isolato anche in sei neonati, da due a 11 giorni di vita, con infezione del cordone ombelicale, dei quali cinque morirono [23]. Più che il trattamento medico, quindi, si può ipotizzare che sia la gravidanza una condizione di rischio per la gravità dell’infezione. In un workshop governativo tenuto ad Atlanta del maggio del 2006 si è deciso di procedere a un programma di sorveglianza e di ulteriori ricerche, senza addossare la responsabilità al protocollo per l’aborto medico [24]. Al workshop un relatore ha riproposto l’ipotesi che il mifepristone possa abbassare le difese immunitarie [25], ma tale effetto antiglucocorticoide è possibile solo con dosi di 400 mg o con una somministrazione di 200 mg al dì per parecchi giorni [26]. Inoltre, nessuna riduzione delle difese immunitarie è stata osservata nella terapia con mifepristone del meningioma, una forma di tumore del cervello [27] o della sindrome di Cushing (malattia dovuta a una disfunzione ormonale), per la quale è autorizzata anche in Italia dal 1999.
Le polemiche sulla mortalità per aborto medico hanno, ovviamente, creato molto scalpore, soprattutto dopo che è stato detto che nell’America del Nord sarebbe di circa un decesso su 100.000, mentre quella per aborto chirurgico sarebbe di uno su un milione [28], insistendo sul fatto che sarebbe superiore di dieci volte. In realtà, il tasso di mortalità per l’aborto medico è analogo a quello per l’aborto spontaneo, che è tra lo 0,7 [29] e l’1,2 per 100.000 [30]. A metà del 2006 il tasso di mortalità per aborto medico stimato negli USA era di circa 0,7 per 100.000 [31] e, aggiungendo il caso canadese, nell’America del Nord dello 0,8 per 100.000. È chiaro che con tali numeri la significatività statistica è molto bassa, essendo necessari milioni di casi per uno studio. In ogni caso si tratta di rischi molto bassi, di casi sporadici, che ripropongono la questione di come occorra essere onesti nel comunicare i rischi e valutare il contesto, poiché non si sceglie una procedura solo per i rischi. Se così fosse, si dovrebbe proporre l’aborto medico per evitare il rischio 10-13 volte superiore di gravidanza a termine insito in quello chirurgico [32, 33, 34]. Per il momento, come veniva osservato già nel 1981, si può confermare che le morti legate a sepsi per aborto evidenziano un filo comune: ritardo nel riconoscere la malattia, ritardo nel cercare aiuto e ritardo nell’iniziare il trattamento [35]. A titolo di confronto il rischio di anafilassi letale per la penicillina negli USA è di uno a 50.000 [36] e quello di morte per il Viagra è di 1 a 20.000 [37].
La realtà italiana
L’interesse per la RU486 in Italia è iniziato a partire dallo studio clinico avviato nell’Ospedale S. Anna di Torino. L’obiettivo dello studio era quello di paragonare l’efficacia e la tollerabilità delle due diverse dosi di mifepristone, 200 mg o 600 mg. Il suo iter è però la dimostrazione di quanto nel nostro paese sia difficile considerare l’aborto come un qualunque altro aspetto della sanità. La prima richiesta per poter avviare il trial è del gennaio 2001 (nell’ottobre 2002 il comitato etico della Regione Piemonte da parere favorevole N.d.R.), ma solo nel settembre del 2005 ottiene il via libera; nell’agosto del 2006 la sperimentazione viene sospesa in attesa che la magistratura torinese verifichi la liceità dei permessi di uscita concessi a 289 donne su 336. Complessivamente sono state trattate 362 donne, 26 in day hospital e 336 in ricovero ordinario, senza che siano emerse differenze tra le due dosi, con una percentuale di revisioni della cavità uterina (raschiamento) attorno al 6,9 per cento [38].
Perché questa sperimentazione ha avuto una vita così travagliata? Il punto centrale della questione è il presunto obbligo per la donna di rimanere dentro l’ospedale fino all’espulsione. È chiaro che, se dovesse essere affermato tale obbligo, la storia della RU486 in Italia sarebbe finita prima ancora di iniziare, essendoci una evidente sproporzione tra le esigenze della donna e l’ospedalizzazione coatta. Da un punto di vista medico i rischi sono sovrapponibili a quelli in cui vi è il rischio di espulsione del prodotto del concepimento al di fuori dell’ospedale, come in caso di minaccia di aborto o come nel caso dell’aborto interno, quando si decide di attendere l’espulsione con o senza l’ausilio di farmaci. In questi casi il ricovero sarebbe addirittura considerato improprio. In Europa l’EMEA non prevede alcun ricovero e l’OMS indica come adeguato un livello organizzativo ambulatoriale “primary-care facility level” per l’aborto medico fino a 9 settimane [7].
Da un punto di vista legale, l’articolo 8 della legge 194 – che recita: «l’interruzione della gravidanza è praticata da un medico del servizio ostetrico-ginecologico presso un ospedale generale» – non impone il ricovero, ma si limita a indicare la figura che può praticare l’aborto senza prescrivere alcuna modalità tecnica di esecuzione. Nel caso dell’aborto medico, gli effetti abortivi differiti nel tempo, rispetto a quelli immediati propri dell’intervento chirurgico, sono solo la conseguenza dell’intervento che è «praticato da un medico del servizio ostetrico-ginecologico presso un ospedale generale» e non l’azione praticata. Il medico interrompe la gravidanza somministrando i farmaci, ma l’espulsione non coincide con la pratica come per l’aborto chirurgico, perché nell’aborto medico l’espulsione è una conseguenza della pratica di interruzione della gravidanza, che consiste appunto nella somministrazione dei farmaci. Un’inchiesta sull’aborto medico nei confronti dell’Ospedale Buzzi di Milano è stata archiviata dalla magistratura milanese. A 53 donne era stata praticata l’interruzione della gravidanza somministrando il methotrexate (farmaco utilizzato per interrompere le gravidanze extrauterine) e le donne hanno potuto lasciare l’ospedale in attesa della somministrazione della prostaglandina sette giorni dopo. Attualmente l’aborto farmacologico è praticato in alcuni ospedali italiani, con il farmaco che viene importato “di volta in volta” e con faticose modalità organizzative sostanzialmente centrate sul day hospital. Complessivamente, dal settembre del 2006 a oggi, sono circa 2.000 le donne che hanno potuto ricorrere alla RU486 per l’interruzione volontaria di gravidanza.
Quali prospettive per la RU486?
Quando l’aborto medico fu introdotto negli anni Novanta, le cliniche olandesi, note per accogliere donne da tutta Europa, non furono entusiaste, ritenendo che lo standard raggiunto dal metodo chirurgico non fosse superabile. Oggi, in alcune zone della Norvegia l’aborto medico è offerto come prima scelta ed è utilizzato per le gravidanze precoci dalla maggior parte delle donne in Francia, Finlandia, Scozia, Svizzera e Svezia. Oltre due milioni di donne lo hanno utilizzato nei paesi occidentali. Tra queste anche una percentuale piccola, ma significativa, di donne olandesi. I motivi legati alla mancata o lenta diffusione dell’aborto medico sono vari; speso di tipo politico, a volte sono legati a questioni assicurative di rimborso dei costi, altre volte a situazioni organizzative svantaggiose, altre volte ad abitudini o a semplici pregiudizi. Da un punto di vista della sicurezza il metodo non presenta grandi problematiche, a parte i problemi di ogni nuova metodica, che deve essere costantemente monitorata ed è soggetta a miglioramenti tecnici. Paradossalmente, anche le polemiche conseguenti allo “scandalo” delle morti per sepsi da Clostridium sordellii – da non sottovalutare in tutta l’ostetricia – hanno contribuito a confermare l’affidabilità del metodo. In seguito a quelle morti, infatti, l’FDA non ha compiuto alcun passo indietro. L’OMS ha mantenuto le sue linee guida [7] e continua a promuovere studi specifici sul mifepristone [6, 8, 39-43] e sul misoprostol [9], che ha inserito nella lista dei farmaci essenziali [44].
In Europa, l’EMEA ha definito il quadro di riferimento per i paesi dell’UE [1]. In Italia il comitato tecnico-scientifico dell’AIFA ha dato parere positivo lo scorso febbraio, ma che il mifepristone sia un farmaco lo aveva già stabilito la CUF (Commissione unica del farmaco) nel 1999, autorizzandolo per trattare la sindrome di Cushing. La sfida per il sistema sanitario italiano è quella di potere offrire l’aborto medico accanto a quello chirurgico, superando tutti gli ostacoli che potranno essere frapposti, avendo come riferimento le raccomandazioni approvate dalla Commissione Europea. La 194 non è un ostacolo, anzi è uno stimolo. In applicazione dell’articolo 15 si possono adottare tutte e quattro le raccomandazioni dell’EMEA per il mifepristone. Inoltre, si può iniziare a utilizzare il misoprostol per le IVG del secondo trimestre, per l’aborto interno, per l’aborto incompleto e per l’ammorbidimento della cervice in alternativa al gemeprost. Finalmente anche i medici italiani potranno contribuire alla ricerca sull’aborto e su tutte le altre indicazioni in cui il mifepristone e il misoprostol sembrano essere utili.
In conclusione, non bisogna dimenticare che l’aborto è per le donne, e che riguarda essenzialmente le donne – i loro desideri, le loro speranze, le loro paure, le loro tragedie, le loro battaglie, i loro bisogni, i loro sentimenti, le loro conoscenze, il loro potere, le loro oppressioni, la loro libertà, le loro costrizioni, le loro risorse e le loro decisioni – e le società in cui vivono [45]. È per loro che occorre offrire le migliori soluzioni e garantire la possibilità di scelta tra metodi medici e chirurgici [46]. È per loro che in Italia bisogna introdurre l’aborto medico precoce con mifepristone. Come ogni altra metodica, l’aborto medico potrà essere migliorato, potrà essere soggetto a critiche, potrà essere o non essere scelto, ma non dovrà più essere negato.
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*ginecologo dell’Ospedale S. Anna di Torino.