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Sanità a pezzi

di
Daniela De Vecchis

Lunghe liste di attesa, dimissioni forzate dei pazienti, errori diagnostici. Un panorama sconfortante quello dipinto dalla Relazione Pit Salute 2002 redatto dal Tribunale per i diritti del malato (Tdm) – Cittadinanzattiva onlus dove regnano sovrani il peggioramento dell’accesso ai servizi e la riduzione degli standard di qualità e sicurezza degli stessi. Non solo. Sulla base delle circa 26 mila segnalazioni dei cittadini pervenute tra il 1 aprile 2001 e il 30 settembre 2002 alle sedi del Tdm e del Pit Salute (Progetto integrato di tutela, il servizio del Tdm che offre consulenza, informazione e tutela) è chiaro come, ancora una volta, l’Italia risulti spaccata in due. “Questa relazione è l’occasione per lanciare una mobilitazione nazionale che sfocerà in giugno nella giornata mondiale per i diritti del malato”, commenta Stefano Inglese, segretario nazionale del Tdm. “Non si tratta solo di soffermarsi sui singoli squilibri, ma di mettere in discussione la stessa capacità del sistema sanitario di reggersi”. Un sistema che spesso esaspera gli utenti con tempi di attesa troppo lunghi per effettuare esami diagnostici (ma anche per conoscerne l’esito) e interventi chirurgici; con la recente introduzione, in alcune regioni, di ticket (su medicinali e prestazioni da pronto soccorso) e di delisting (lo spostamento cioè di centinaia di farmaci dalla classe A, gratuita, alla classe C, a carico dei cittadini); con gli impacci di una burocrazia che rende arduo il solo reperimento di informazioni, ostacolando in particolar modo l’iter delle pratiche per il riconoscimento dell’invalidità. Ma anche con errori medici che, sempre più numerosi, incrementano il senso di insicurezza e, di conseguenza, il ricorso a più consulenze; con quelle dimissioni forzate, infine, che costringono i pazienti cronici a uscire dagli ospedali non appena terminata la fase acuta della malattia. “Le dimissioni forzate”, va aventi Inglese, “sottendono un’evidente tendenza al risparmio che sarebbe giustificata se anziché scaricare il problema sul malato e sulla sua famiglia, il territorio potesse offrire valide alternative agli ospedali, che rimangono, invece, i centri di eccellenza. Il punto sta proprio qui: la sfida cioè non deve essere rivolta solamente a rendere eccellenti poche strutture, bensì tutte le prestazioni ordinarie”. Una prospettiva, finora, fin troppo irrealistica, tanti sono i settori che rappresentano delle vere e proprie emergenze. “Innanzitutto la riabilitazione: è impensabile”, lamenta Inglese, “che i ragazzi cerebrolesi del sud debbano emigrare fino a Roma o addirittura al nord, soffrendo così, oltre che delle conseguenze dell’incidente, anche dell’allontanamento da amici e parenti. Si pensi che le unità spinali attive su tutto il territorio nazionale sono appena otto. Altrettanto inammissibile è che le unità di radioterapia risentano della carenza quantitativa e qualitativa (nel senso della poca esperienza) degli specialisti oncologici. Come pure che la terapia del dolore non riceva ancora l’attenzione dovuta, in termini di prescrizione di oppiacei e cambiamento di mentalità degli operatori”.Contro chi puntare il dito? “Contro una strategia politica che mette al primo posto gli interessi economici e non la salute del cittadino”. Nel mirino del Tdm la legge Finanziaria: “è falso dire che non si è tolto nulla alla spesa sanitaria, che anzi, come si vorrebbe far credere, si è aggiunto”, attacca Inglese. “Al contrario sono stati inseriti paletti e criteri restrittivi che limitano la possibilità per le Regioni di entrare in possesso di budget adeguati, di poter imporre, oltretutto, addizionali a livello locale, mentre si obbligano i direttori delle Asl a far quadrare il bilancio, pena la loro decadenza”. Le cose da fare? “Innanzitutto sono indispensabili maggiori finanziamenti per le politiche sociali legate alla perdita dell’autosufficienza, mentre, allo stesso tempo, occorre rendere effettivi quei fondi speciali già a disposizione delle Regioni, ma attualmente usati per la gestione ordinaria”, spiega il dirigente. Altra nota dolente: la devolution. “Così come viene prospettata”, commenta Inglese, “rischia di essere la negazione, e non il federalismo, dei diritti. Si pensi all’accantonamento della legge quadro sull’assistenza, alla trasformazione subita dai Lea, i livelli essenziali di assistenza, prima uniformi ed essenziali, ora diventati una lista minima delle prestazioni da garantire a livello regionale. In tal modo la disomogeneità tra le Regioni non farà altro che aumentare con un nord dotato di attrezzature e capacità manageriali sempre migliori e un sud sempre più affannato”. Dunque, la devolution può attendere, la soluzione ai problemi chiave no. E per trovarla: “è necessario”, conclude Inglese, “riportare al centro del dibattito la riflessione sui diritti e sulla tutela, anziché pensare alla realizzazione di risultati immediatamente produttivi sul piano economico-finanziario. Prima i diritti, poi i soldi”.

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