Da una parte l’ orda famelica di lettori attenti e curiosi. Dall’altra l’accademia e i suoi comunicatori. Nel mezzo, a collegarli, la Rete. Che, assieme agli altri mass media – e in modo molto più pervicace – ha letteralmente sconvolto i processi moderni di comunicazione della scienza. È la cosiddetta Public Science 2.0: un tema delicato, complesso e estremamente dibattuto, tanto che Science questa settimana vi ha dedicato un intero speciale, in cui ricercatori e giornalisti analizzano a fondo i formati in cui oggi si declina la comunicazione della scienza e le loro ricadute su cultura e società.
Carsten Könneker e Beatrice Lugger, in particolare, hanno parlato di un “ritorno al futuro”: “I recenti sconvolgimenti nei processi di ricerca e di comunicazione non sono fenomeni completamente nuovi. In qualche modo, la scienza sta tornando a una relazione con il pubblico che, un tempo, era la norma”. Tre secoli fa, secondo le autrici, scienza e grande pubblico erano insomma affiatati quanto lo sono adesso – basti pensare alle grandi manifestazioni pubbliche di un tempo, come quella di Otto von Guericke, sindaco di Magdeburgo, che nel 1661 mostrò alla gente della sue città come 16 cavalli da tiro non fossero in grado di separare due emisferi di ottone in cui era stato fatto il vuoto.
Cavalli a parte, quello che oggi è davvero cambiato è la piattaforma che veicola la comunicazione della scienza. Diventata completamente “dipendente dai media”, secondo il sociologo Peter Weingart. I ricercatori possono condividere facilmente in Rete i propri lavori e interagire direttamente con le altre parti della società. E al grande pubblico bastano un router e pochi clic per accedere tempestivamente alla summa del sapere. Tutto accade rigorosamente in tempo reale, ovunque ci si trovi. I lettori apprendono, fruiscono e metabolizzano all’istante. E naturalmente sono pronti a commentare. Il che apre un ulteriore dibattito: quanto è giusto che – in merito a temi scientifici, ovviamente – chiunque possa dire la sua?
Quello dei commenti online, in effetti, è uno dei tanti risvolti delicati relativi alla comunicazione della scienza moderna. Specie su temi caldi che interessano e spaccano l’opinione pubblica – questioni legate alla salute o ai farmaci, per esempio, ma anche al cambiamento climatico o all’evoluzione. Se da una parte è innegabile che ci sia assolutamente bisogno di un dibattito pubblico sereno e intelligente su tematiche come queste, non è infrequente che conversazioni online che altrimenti sarebbero estremamente fruttuose vengano sepolte sotto un mare di commenti offensivi, ignoranti e spesso minacciosi. È un problema con cui, presto o tardi, la maggior parte delle riviste scientifiche online (e dei giornali in cui si parla di scienza) si trova a dover fare i conti.
Ma le cose potrebbero cambiare rapidamente. È di pochi giorni fa, infatti, la notizia che Popular Science ha deciso di chiudere a tempo indeterminato la sezione dei commenti online. Perché, come sostiene Suzanne LaBarre, direttore della rivista, “I commenti possono essere un male per la scienza. Quasi sempre la colpa è di troll e spambot”. Secondo il New York Times, che ha pubblicato un’interessante riflessione sul tema, quella di PopSci è stata una decisione obbligata dalla mancanza di risorse economiche e umane all’interno della redazione: “Anche su siti in cui i commenti sono selezionati – come nytimes.com, in cui i moderatori possono pubblicare o respingere quello che scrivono gli utenti – anche a chi pensa, per esempio, che l’evoluzionismo sia spazzatura è generalmente permesso di dirlo: saranno gli altri a zittirlo. Anche perché, spesso, per altri lettori, seguire questi temi nei commenti fa parte del divertimento. Ma Popular Science e altre riviste non hanno le risorse per la moderazione, e quindi attacchi personali e insulti possono dilagare senza problemi”.
La decisione di PopSci ha innescato una raffica di reazioni da parte di blogger e commentatori (per l’appunto). Alcuni pensano che, in effetti, il Far West dei commenti non moderati sia di grave detrimento alla qualità generale della comunicazione. Altri hanno considerato il divieto totale di commentare una mossa troppo estrema, appellandosi al fatto che i commenti, “se tenuti sotto controllo”, potrebbero comunque portare beneficio alla scienza, promuovere il dibattito e magnificare ciò che Will Oremus, di Slate, ha definito “lo spirito della libera indagine che ha sempre guidato le scoperte scientifiche”.
Per giustificare la propria decisione, PopSci si è appellata alla scienza stessa. Un recente studio dei ricercatori della University of Wisconsin-Madison ha suggerito, infatti, che la percezione della pericolosità di un progresso scientifico possa diventare più radicata e polarizzata dopo aver letto commenti scritti in tono arrogante o incivile. I ricercatori hanno chiesto a 1.183 persone di leggere un finto articolo scientifico sulle nanotecnologie, un tema scelto perché non troppo noto ai non addetti ai lavori e privo di particolari bias ideologici. In sostanza, chi aveva un pregiudizio negativo sulla tecnologia ne è uscito ancora meno convinto dopo aver letto commenti del tipo “Idiota, è un rischio”, racconta Dietram Scheufele, uno degli autori del lavoro. E viceversa: i lettori ben predisposti prima della lettura dell’articolo lo diventavano ancora di più dopo aver sfogliato commenti dal tenore “Siete stupidi – è un vantaggio”.
Secondo LaBarre, i risultati dei ricercatori implicano un circolo vizioso sconfortante, dato che “i commentatori formano l’opinione pubblica; l’opinione pubblica forma la politica pubblica; la politica pubblica decide come e se la scienza deve essere finanziata”. E dunque, dato che il suo giornale non può permettersi di moderare i commenti, la decisione di uno shutdown totale era più o meno obbligata.
Altre riviste, come Nature, hanno scelto un approccio più soft: “Non c’è dubbio che i discorsi incivili non siano positivi per la scienza”, ha spiegato Noah Gray, senior editor della rivista, “ma i commenti talvolta sono molto preziosi. Spesso sottolineano errori o interpretazioni alternative di fatti o teorie presentate nell’articolo. La rimozione totale di questo canale per il feedback, piuttosto che l’esplorazione di nuovi modi per migliorarlo, ignora semplicemente il problema”. Scientific American, invece, dove i commenti sono moderati, ha preso una posizione analoga al Nyt: “Se i siti non hanno tempo o energia per lavorare seriamente sui commenti, è meglio non averli”.
Anche le testate italiane, naturalmente, sono incappate nello stesso problema. Ed è venuto al pettine lo stesso dubbio amletico. Francesco Costa, sul Post, ha auspicato una fine prematura dei commentatori molesti (metaforicamente s’intende), allineandosi alla decisione di PopSci e paragonando le sezioni dei commenti sui siti di news alle “interviste dei passanti trasmesse dai telegiornali”, che “hanno molto a che fare con la chiacchiera, niente con l’informazione” e la cui naturale collocazione è sui social network anziché sui giornali. Gli ha risposto il nostro Andrea Girolami con un post sul suo blog su Wired.it, provando a ribaltare la frittata: “Il rumore di fondo è parte integrante della comunicazione online, una vibrazione con cui bisogna imparare a convivere e a ripulire con gli strumenti culturali che siamo capaci attraverso la lettura e il confronto”. E addirittura a rilanciare, proponendo un assottigliamento crescente della frattura tra social network e giornali.
Come tutte le testate, anche Wired.it non è immune alla patologia delle guerre dei commenti – vedi per esempio le nostre inchieste sul caso Stamina o le chiarificazioni in merito ai vaccini. La questione non è da prendere sottogamba. Perché se da una parte è vero che spesso i commenti degenerano in flame war prive di senso, c’è anche il pericolo che la scienza, con decisioni di questo tipo, si trìnceri troppo nella turris eburnea dell’accademia, allargando sempre più la frattura con il grande pubblico. Forse l’unica è affrontare la questione con un pizzico di ironia da ambo le parti. Come ha fatto Nick Anglewicz, un lettore di PopSci: “Credo abbiate preso la decisione giusta”, ha scritto alla rivista. “Ora, se solo potessi pubblicare la mia opinione sotto il vostro articolo…”.
Via: Wired.it
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