Nel mondo della medicina il Natale è l’occasione per un po’ di scienza leggera. Non che si tralasci il rigore, sia chiaro. Ma sotto le feste il metodo scientifico può aiutare a rispondere anche a domande semiserie. Almeno sulle pagine di una delle più antiche, e prestigiose, riviste mediche del mondo: il British Medical Journal. Da anni infatti il Bmj ha una tradizione: uno speciale natalizio, in cui malattie, genetica e farmaci innovativi lasciano il posto a ricerche improbabili, che cercano di rispondere a domande assurde, ma non meno intriganti: come può una renna di Babbo Natale avere il naso rosso? A quali effetti collaterali si va incontro ingoiando una sciabola? O ancora: quanto sopravvive una scatola di cioccolatini in un reparto d’ospedale? Incuriositi? Eccovi alcune delle ricerche più folli pubblicate negli ultimi anni.
Quanto sono stati buoni gli scienziati?
Sarebbe bello immaginare la scienza come un universo immacolato. Distante dalle brutture del mondo reale. Impervio alle gelosie, alle frodi, all’ossessione per il successo. Ovviamente così non è: gli scienziati sono esseri umani come tutti gli altri, con i loro difetti, peccatucci e ambizioni. Non a caso, frodi e mistificazioni sono fin troppo comuni anche nella ricerca scientifica. Basta cambiare un paio di decimali, scambiare un endpoint primario per uno secondario, ingigantire il significato di una scoperta, e il gioco è fatto. La comunità scientifica chiaramente conosce il problema, e vi dedica una crescente attenzione. Sempre più ricerche indagano la qualità dei risultati pubblicati sulle riviste scientifiche, per assicurarsi che non siano distorti o ingigantiti.
Ma chi garantisce che questi studi non distorcano, a loro volta, i risultati ottenuti? Nessuno, purtroppo. Per questo motivo una ricerca pubblicata sullo speciale natalizio del Bmj di quest’anno ha deciso di verificare se le ricerche sulle manipolazioni dei risultati scientifici siano esenti da distorsioni. Gli autori hanno identificato 35 metanalisi dedicate alla valutazione di manipolazioni e distorsioni dei risultati di altre ricerche. E di queste, ben 5 presentavano interpretazioni dubbie, o esagerate, dei risultati ottenuti. La morale? Anche chi dà la caccia ai bari, a volte, finisce per barare.
Dove finiscono i cucchiaini?
Che sia in casa, in un bed and breakfast o persino in un istituto di ricerca, c’è qualcosa che tende inevitabilmente a mancare quando si condividono gli spazi con più persone: i cucchiaini. Posate inestimabili per zuccherare e girare tè e caffè, con la tendenza a sparire misteriosamente e al momento meno opportuno. Un problema noto, ma supportato per lo più da indizi aneddotici, insufficienti per una vera conoscenza scientifica. Fortunatamente nel 2005 un team di ricercatori australiani ha deciso di vederci chiaro, mettendo in piedi uno studio di coorte longitudinale dedicato a chiarire una volta per tutte il mistero; per dirlo con le parole degli stessi ricercatori: “che fine fanno i dannati cucchiaini?”. Hanno quindi comprato 70 cucchiaini e li hanno distribuiti in tutte le sale da tè del Macfarlane Burnet Institute for Medical Research and Public Health di Melbourne, marchiandone segretamente alcuni in modo da poterli riconoscere in un secondo momento.
Ogni notte, per cinque mesi, hanno quindi contato di nascosto il numero di cucchiaini rimanenti, e al termine di questo periodo hanno avuto la prima risposta: l’80% delle posate era infatti sparito. Dati alla mano, l’emivita dei cucchiaini sembra non superare gli 81 giorni. Nonostante le marchiature segrete, i ricercatori non sono riusciti purtroppo a comprendere che fine avessero fatto di preciso i cucchiaini scomparsi, e nessuno nello staff dell’istituto ha ammesso di aver sottratto, anche solo per errore, le posate.
I dati raccolti comunque aiutano a tratteggiare le proporzioni del problema: applicando un tasso di sparizione annuo per dipendente individuato nell’istituto all’intera popolazione Melbourne, si scopre che ogni anno nella città potrebbero andare perduti quasi 18milioni di cucchiaini: “se li mettessimo in fila uno dietro l’altro – concludono i ricercatori – coprirebbero una distanza di circa 2.700 chilometri”.
Il naso rosso delle renne di Babbo Natale
Rudolph è forse la più celebre tra le renne che trainano la slitta di Babbo Natale. Apparsa per la prima volta in un racconto del 1939, è ormai un’icona pop, estremamente riconoscibile per via del lumino naso rosso porpora con cui rischiara il cammino delle compagne durante il lungo viaggio dal polo Nord. A cosa sono dovute le insolite proprietà del suo naso? Per rispondere, un gruppo di ricercatori olandesi ha deciso di indagare la microcircolazione del naso delle renne, comparandolo con quello, ben più studiato, della nostra specie.
Alla ricerca hanno partecipato cinque volontari umani e due renne adulte, analizzati con cura dai ricercatori per caratterizzare similitudini e differenze a livello di microcircolazione nelle mucose nasali. I risultati hanno rivelato che il naso delle renne ha una densità di vasi sanguigni superiore del 25% rispetto a quella umana. Abbastanza – scrivono i ricercatori – per ipotizzare la presenza di un naso rosso acceso in esemplari con una microcircolazione particolarmente sviluppata, come Rudolph.
Rischi professionali del metallaro
Alcuni generi musicali si ascoltano ballando. Altri vanno goduti da seduti, possibilmente in silenzio. Se si parla di heavy metal comunque l’alternativa è una sola: muovere violentemente la testa in modo da roteare i capelli (rigorosamente lunghi) a tempo di musica. Si chiama headbanging, ed è la mossa più iconica del vero metallaro: diffusissima, ma non priva di rischi. Un team di ricercatori della University of New South Wales in Australia ha infatti studiato a fondo il fenomeno frequentando i live di gruppi come Motörhead, Mötley Crüe, Skid Row, Ozzy Osbourne e Whitesnake.
Una volta caratterizzati gli stili di headbanging più diffusi, hanno quindi verificato a quali sollecitazioni, e rischi, espongano il collo degli appassionati. Scoprendo che i pericoli nascono in condizioni specifiche: a partire da canzoni suonate a una velocità di 130 bpm i rischi di strappi e contratture ai muscoli del collo iniziano a farsi concreti. La soluzione? Secondo i ricercatori un programma di esercizi che aiuti a contenere l’ampiezza dei movimenti effettuati con la testa durante l’headbanging potrebbe tenere gli spettatori a riparo dai danni maggiori. In alternativa, anche un cambio di gusti musicali, che riorienti gli ascolti verso cantanti come Michael Bolton, Enya e Celine Dion potrebbe essere risolutivo. Difficile immaginare però che un vero metallaro possa accettare il consiglio.
Monociclo e testosterone
Nel 2007 Sam Shusterd era un professore emerito di dermatologia. E avendo ormai raggiunto la pensione, aveva deciso di trovarsi un hobby. Appassionato da sempre al ciclismo, aveva scelto di dedicarsi a una variante meno comune: il monociclo. Dopo avere girato il proprio quartiere per qualche settimana a cavallo del suo nuovo acquisto, si rese conto che le reazioni dei vicini alla novità erano estremamente varie. E da bravo scienziato, decise di studiarle più a fondo.
Dopo qualche altro mese per la raccolta dei dati, la sua nuova ricerca era pronta per lo speciale natalizio del Bmj. Con i dati ottenuti Shuster è riuscito a dimostrare che le reazioni dipendevano principalmente da due fattori: sesso ed età. Le donne infatti si dimostravano mediamente positive nei confronti dell’uomo e del suo monociclo, limitandosi ad esprimere, ogni tanto, preoccupazioni per la sua sicurezza. Nel sesso maschile invece le reazioni mutavano con il crescere dell’età: positive ed ammirate per i bambini, ostili nei teenager, ostili ma scherzose negli adulti, e nuovamente pacate negli anziani. Una situazione che per Shuster è spiegabile efficacemente da una semplice correlazione: quella tra aggressività e testosterone. Più testosterone nel sangue, come capita durante l’adolescenza, maggiore l’astio nei confronti del monociclista; e al contempo meno testosterone, come nell’infanzia e nella vecchiaia, migliore la disposizione nei suoi confronti. Trattandosi di uno studio osservazionale, il medico raccomanda però ulteriori studi per confermare le sue scoperte.
Che fine ha fatto il cioccolato
Le scatole di cioccolatini sono una presenza familiare nei reparti d’ospedale. Specie sotto le feste, quando pazienti e familiari ne fanno dono ai medici come ringraziamento per una guarigione, o un trattamento particolarmente gradito. Il problema è che una volta aperte, le scatole tendono a finire in un lampo, spesso senza che i proprietari riescano a capire chi le ha consumate tanto rapidamente. Tanta è la frustrazione che questi incidenti provocano all’interno degli ospedali, che una ricerca pubblicata sul numero natalizio del Bmj del 2013 ha provato a profilare quali specialisti hanno maggiori probabilità di spazzolare i cioccolatini che arrivano in reparto.
Gli autori hanno piazzato delle scatole di cioccolatini in diversi ospedali inglesi, e hanno monitorato di nascosto quando, e da chi, veniva consumato ogni cioccolatino. I risultati sono stati rivelatori. Per iniziare, il tempo di vita medio di una scatola di cioccolatini in reparto (outcome primario nello studio) si ferma ad appena 51 minuti. Ancor più interessante, forse, l’identikit dei consumatori seriali: principalmente infermieri e personale tecnico sanitario. Due categorie – ammettono gli stessi ricercatori – in cui ricadono la maggior parte dei lavoratori presenti in reparto. Per serietà, gli autori raccomandano quindi di prendere i risultati con le molle, in attesa di nuovi studi che approfondiscano la questione con un campione più ampio.
Mangiatori di spade
Non ci vuole un genio per immaginare che quello del mangiatore di spade è un lavoro potenzialmente pericolo. Ma per la scienza, i rischi concreti che corrono questi professionisti dell’intrattenimento rimanevano sconosciuti. È per questo che nel 2006 il radiologo inglese Brian Witcombe ha deciso di porre fine, una volta per tutte, al mistero. Ha quindi contattato 50 mangiatori di spade appartenenti alla Sword Swallowers’ Association International, chiedendo loro di rispondere a un questionario pensato per individuare possibili effetti collaterali della loro peculiare professione.
I più comuni, prevedibilmente, sono risultati il mal di gola e dolori toracici. Più rari, ma anche più gravi, i problemi in caso di incidenti: perforazioni dell’esofago, pneumotorace, e lesioni al collo. “Le complicazioni gravi sono risultate più comuni quando i mangiatori di spade si distraggono durante lo spettacolo, o si trovano a lavorare con più di una spada, o con spade dalla foggia inusuale”, scrive Witcombe nello studio. “Le perforazioni sembrano principalmente a danno dell’esofago, e hanno di norma una prognosi favorevole”.
Via: Wired.it
Credits immagine: Annette Meyer da Pixabay
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