Stipendi da fame, finanziamenti ridicoli, fuga all’estero dei “cervelli” migliori. È il desolante quadro offerto dalla scienza russa dopo il crollo della Repubblica dei Soviet. Per protestare contro lo stato di abbandono in cui svolgono il loro lavoro, alcune centinaia di ricercatori sono scesi ieri in piazza a Mosca, San Pietroburgo e in altre città. “Difendete la scienza, preservate la Russia”, era lo slogan dei manifestanti. E a guardare i bilanci statali, non si può dar loro torto. Lo stesso presidente Vladimir Putin lo ammette: “Provo vergogna – ha recentemente affermato – a rivelare l’ammontare del salario di uno scienziato nel nostro paese”. Lo stipendio base di un professore equivale a circa 100 mila lire al mese. Mentre per la ricerca di base, lo Stato russo conta di spendere il prossimo anno l’1,6 per cento del suo bilancio (gli scienziati scesi in piazza chiedono che si arrivi almeno al 4 per cento). Una cifra ridicola per un paese erede di una superpotenza come l’Urss. Vent’anni fa, gli addetti alla ricerca tra settore militare e settore civile erano circa 2 milioni. Oggi sono poco più di 800 mila, con un’età media di 57 anni. Si calcola che negli ultimi dieci anni almeno 30 mila scienziati siano emigrati in cerca di stipendi all’altezza della loro competenza. Una perdita gravissima per una nazione che proprio grazie alla sua supremazia in molti campi della ricerca ha retto per decenni la sfida con l’Occidente. (v.cam.)