Per secoli, millenni, la cultura occidentale ha coltivato l’idea che l’uomo si trovasse su una sorta di piedistallo biologico rispetto a tutti gli altri animali, soprattutto per le sue capacità cognitive. Noi uomini, ci siamo sempre detti, siamo gli unici esseri dotati di un linguaggio che consenta di formulare pensieri e in generale di riflettere su se stessi e sulla realtà esterna. Solo nel diciannovesimo secolo, con la possibilità di conoscere da vicino scimpanzé e altre grandi scimmie negli zoo e la pubblicazione dell’Origine della specie di Charles Darwin, questa convinzione ha cominciato a vacillare e poi, negli ultimi decenni dello scorso secolo, i risultati dello studio del comportamento animale essa si è rivelata sempre meno sostenibile, tanto che oggi nessuno sostiene più che l’uomo è unico perché può comunicare. Questa capacità si è rivelata piuttosto un tratto comune al regno animale, e la ricerca dunque si è rivolta allo studio delle differenze tra le modalità comunicative degli animali e quelle dell’uomo. E proprio da queste ricerche si è fatta avanti l’idea che nel regno animale ci sia una continuità nei codici di comunicazione, ma anche nelle capacità cognitive, che va dal più semplice al più complesso. In altre parole, come già sospettato da Darwin, la differenza tra le nostre capacità cognitive e quelle dei non-umani sembrerebbe quantitativa più che qualitativa. Lungi dal riuscire a stabilire un netto confine cognitivo tra l’uomo e gli altri animali, la scienza ci propone oggi l’immagine di una continuità, di un grande mosaico le cui tessere hanno contorni non ben definiti, imponendoci di guardare agli animali in modo diverso. Abbiamo chiesto a Elisabetta Visalberghi, etologa e ricercatrice del Cnr, di raccontarci come questi studi abbiano cambiato la nostra visione del mondo animale.
Quale è stato il ruolo della ricerca sull’etologia delle scimmie nella rivalutazione delle capacità cognitive degli animali?
Certamente sono stati gli studi sui primati a trovarsi per primi di fronte al problema di differenziare le capacità umane da quelle degli animali. E si è visto che tanto più si riusciva a entrare nei dettagli, a mettere alla prova un animale piuttosto che a osservarlo ne suo ambiente naturale, impostando la ricerca in termini via via più corretti, tanto più le barriere via via cadevano, rivelandosi sempre più di tipo quantitativo: Per esempio, prima si pensava che l’uso di strumenti fosse molto raro negli animali in natura, che fosse più un comportamento indotto dagli uomini negli animali in cattività. Ma quando si è cominciato ad osservarlo in condizioni naturali, ha incominciato a vacillare l’idea di Homo faber come essere assolutamente unico. Allora si è cominciato a pensare che forse le differenze sono più di quantità, che a cercare di mettere in luce le differenze tra umani e altri primati in questo ambito. Insomma si è andati sempre più per il sottile nell’esplorazione delle differenze, raffinando via via il ragionamento. Ma con l’osservazione sempre più attenta e precisa alla fine per gli studiosi è diventato veramente difficile operare distinzioni: la realtà è apparsa molto più complessa e articolata, e le distinzioni progressivamente smentite da nuove informazioni. In qualche modo è venuta fuori l’immagine di un continuum nelle capacità, nelle attitudini, nel comportamento, che ha portato a una riflessione sugli animali stessi e sul nostro rapporto con loro. Un rapporto che per tanto tempo si era basato su una sostanziale ignoranza da parte dell’uomo.
Lei prima accennava a delle differenze fondamentali che comunque si possono cogliere tra noi e gli altri animali. Quali sono?
Sicuramente l’attitudine a insegnare in maniera attiva a individui meno esperti come fare qualcosa è sicuramente una caratteristica minimale nelle scimmie antropomorfe, diversamente da ciò che avviene nella società umana, dove l’insegnamento è continuo e sistematico, e favorisce processi di apprendimento molto più rapidi.Ma è una differenza qualitativa o quantitativa? Probabilmente la seconda ipotesi è la più veritiera. Anche se la differenza quantitativa in questo caso ha conseguenze notevoli. Noi siamo capaci di rappresentazioni simboliche, di ragionamenti causali in un grado irraggiungibile per gli scimpanzé. Questo non significa che non siano in grado di fare ragionamenti di questo tipo, ma ne fanno molto pochi rispetto a noi. Anche per quanto riguarda l’attitudine a imparare osservando gli altri, a imitare, non è che gli scimpanzé non ne siano capaci, ma nell’uomo è molto più forte ed è alla base del nostro meccanismo di apprendimento. Ciò non vuol dire che un bambino non possa imparare a risolvere un problema da solo, per prova ed errore. Ma se c’è un adulto che esegue lo stesso compito il bambino lo imita spontaneamente. Per gli scimpanzé l’apprendimento di una nuova cosa è invece principalmente un processo autonomo, anche se un piccolo può, stando vicino alla madre, apprendere molte cose. Ma avviene come tra gli uomini che la madre stia li continuamente a correggerlo e fargli vedere come si fa. In trent’anni di osservazioni, un evento del genere è stato registrato solo una volta. La mancanza di un insegnamento e di un apprendimento sistematico impedisce l’accumulo delle esperienze in maniera plastica ed efficiente come è per noi. Cioè significa che se uno scimpanzé scopre qualcosa di nuovo è molto probabile che, piuttosto che trasmettersi in tempi rapidi agli altri individui del gruppo, l’informazione si vada a perdere. E’ questa la differenza principale tra culture umane e culture animali.
La maggiore comprensione dell’etologia delle altre specie influisce sul nostro atteggiamento verso gli animali?
Sia che lo studioso accolga pienamente l’idea che tra uomini e altri animali non ci siano differenze, sia che, come nel mio caso, pensino che ci siano comunque delle differenze fondamentali, ciononostante l’aver conosciuto così bene un altro individuo, l’aver visto che si comporta in modo sorprendente, per capacità di adattamento, di soluzione di problemi, per esempio, in un qualche modo impedisce un rapporto che non sia di valorizzazione dell’altro. E questo può succedere anche quando si studiano animali molto diversi da noi. La conoscenza porta a una fascinazione. Anche chi studia le api, per quanto possa avere meno scrupoli nell’utilizzarle, nell’ucciderle piuttosto che nel tenerle in una gabbietta, in realtà arriva a un livello di comprensione dell’altro essere che non può non implicare un maggiore rispetto. Una persona qualsiasi di fronte a una vespa che plana, che so, sul panino al prosciutto che sta per addentare non ci pensa due volte a schiacciarla. Se invece sapesse di cosa questi insetti sono capaci, quanto la vespa possa essere affascinata dal prosciutto, non permetterebbe che ne mangi un po’, rimanendo magari a osservarla. La conoscenza porta al rispetto, come del resto è tra gli uomini: non dimentichiamoci che un tempo nei giardini zoologici accanto a scimpanzé e gorilla erano esibiti i boscimani, gli africani, i pigmei, uomini dall’aspetto diverso, esotico. Da un lato cadono alcune barriere perché vediamo gli animali capaci di cose che facciamo anche noi, dall’altro c’è un’accettazione dell’altro, un apprezzamento nella sua diversità.
Non fa differenza, dunque, tra animali più simili a noi, come i grandi primati, e tutte le altre specie?
Certo chi studia i primati si trova di fronte a certe somiglianze direi conturbanti e non può non interrogarsi. La cosa interessante è stata però che se anche i primatologi hanno avuto un ruolo determinante nella battaglia per i diritti animali, via via che certi principi si affermano, anche gli studiosi di altre specie iniziano ad avere lo stesso atteggiamento. E se l’aver posto la questione solo per le grandi scimmie poteva apparire una sorta di atteggiamento corporativo, ciò ha in realtà aperto la strada al riconoscimento dei diritti anche per altre specie, ai delfini, agli elefanti, per esempio. E’ un processo a catena che, secondo me, è inarrestabile: dove e in base a quali criteri si può stabilire un limite? Si può decidere di riconoscere dei diritti agli animali che si riconoscono allo specchio, per esempio, ma perché non farlo anche rispetto a quelli che usano strumenti o a quelli che vivendo a lungo accumulano una grande esperienza? Non esistono criteri migliori. La conseguenza è che bisogna avere un rispetto per il mondo animale in generale, e anche per quello vegetale. E quindi anche se, per esempio, Jane Goodall porta avanti da anni la battaglia per la difesa degli scimpanzé, la sua azione ha una portata ben più ampia.
E’ vero che nel campo della ricerca primatologica la presenza delle donne è maggiore che in altri settori di studio e che questo ha in qualche modo influenzato i risultati scientifici?
Il ruolo delle donne nello studio dei primati è stato un po’ mitizzato. In realtà sono diverse le discipline dove le donne sono più numerose. Certo alcune donne hanno avuto un ruolo molto influente, pensiamo alla Goodall o a Diane Fossey, questo però anche per l’interesse che l’idea di una donna bianca che studia le scimmie in mezzo alla foresta può suscitare sui mass media. D’altro canto, se noi guardiamo al mondo della ricerca primatologica, non è affatto vero che le donne abbiano più potere degli uomini. E’ vero piuttosto che negli anni sessanta ci sono state molte ricercatrici che si sono poste ad osservare i primati con un ottica non “maschiocentrica”, incominciando a dare importanza più che alle lotte per il potere tra maschi ai ruoli femminili, alle cure materne e ad altri comportamenti sociali. Ma questo fatto però è strettamente connesso alla affermazione del movimento femminista e alla accresciuta consapevolezza delle donne riguardo ai loro ruoli e alle loro possibilità. E ritengo che qualcosa di analogo sia avvenuto anche in altri campi della ricerca etologica e anche della psicologia.