Vent’anni non bastano per liquidare le conseguenze del più grande disastro nella storia del nucleare civile. L’onda lunga di quella drammatica notte del 26 aprile 1986, quando il reattore numero quattro della centrale di Chernobyl esplose, innescando incendi e rilasciando quasi sette tonnellate di materiale radioattivo, è destinata a farsi sentire ancora a lungo. L’unica certezza su Chernobyl, ad oggi, sembra essere la mancanza di certezze nei tentavi di tirare le somme sull’impatto umano, ambientale, economico e sociale di una catastrofe che ha segnato profondamente la storia dell’umanità. E su Nature diventano oggetto del contendere le cifre fornite dal rapporto dell’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms), l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) e il Programma di sviluppo delle Nazioni Unite (Undp). Il documento, anticipato a settembre e reso pubblico in occasione dell’anniversario, rappresenta il più vasto studio condotto finora sulle vittime del disastro.Quattromila i morti attribuibili a Chernobyl, si leggeva nel comunicato stampa, causati principalmente da cancro alla tiroide. A meno di aggiungerne altri probabili cinquemila (come si scopre solo leggendo il rapporto nel dettaglio) considerando oltre alle 600.000 persone nelle immediate vicinanze della centrale, anche i 6,8 milioni che vivevano più lontano. “Senza considerare che queste previsioni ignorano il gran numero di cittadini europei esposti a radiazioni molto basse”, affermano in un articolo di commento sulla rivista britannica Dillwyn Williams dei Strangeways Research Laboratories di Cambridge (Gran Bretagna) e Keith Baverstock della University of Kuoipio (Finlandia). Secondo il National Research Council statunitense, persino piccole quantità di radiazioni non sono da considerare sicure per la salute. I toni dell’Oms sono eccessivamente rassicuranti, soprattutto alla luce del fatto che nessuno può dirsi certo di queste stime. La lezione delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki dovrebbe insegnare, ritengono le due ricercatrici, che due decenni sono troppo pochi per fare previsioni sulle conseguenze del fall-out, affermando che questo provoca soltanto il cancro alla tiroide. “L’alta incidenza dei tumori alla tiroide è stata associata all’ingente quantità di iodio-131 nel fall-out e al consumo di latte a livello locale. Ma la tiroide non è l’unico tessuto a immagazzinare iodio radioattivo”, continua Nature. “Anche le ghiandole salivari, il seno e lo stomaco ne accumulano, con conseguente aumento del rischio di degenerazioni maligne. Per quanto il futuro sia incerto, ci sono recenti evidenze che l’incidenza del cancro al seno sia quasi raddoppiata nelle aree pesantemente contaminate di radiazioni della Biolorussia e dell’Ucraina”. Ma le critiche non finiscono qui. Le statistiche del rapporto offuscano il peso delle malattie non tumorali sul bilancio complessivo della catastrofe, che non si può ridurre alla conta dei casi dei decessi che ne sono derivati. Le conseguenze più serie, secondo la stessa Undp, si sono pagate in termini di salute mentale. E critica verso la cifra 4.000 vittime di Chernobyl è anche Greenpeace. Con un rapporto parallelo, realizzato con il contributo di 52 scienziati di tutto il mondo, l’associazione ambientalista contesta le valutazioni ufficiali dell’impatto sulla salute di Chernobyl, considerandole largamente sottostimate. Il dossier di Greenpeace è stato presentato a Roma, in occasione dell’inaugurazione di una mostra fotografica per ricordare Chernobyl, all’Auditorium fino al 14 maggio.