E’ il più grande paradosso della natura: viviamo e moriamo per colpa dello stesso gene, lo shcA, che fa crescere le nostre cellule, ma le fa anche invecchiare. A scoprirlo, quasi per caso, è stato un gruppo di ricercatori diretto da Pier Giuseppe Pelicci dell’Istituto Europeo di Oncologia di Milano (Ieo – http://www.ieo.it/). Eliminando lo shcA dal patrimonio genetico di alcune cavie, i ricercatori sono infatti riusciti ad allungarne la vita. E senza effetti collaterali, come invece era accaduto in precedenti esperimenti in cui le cavie vivevano più a lungo, ma erano sterili. E così per la prima volta si ha la prova che anche nei mammiferi la durata della vita è geneticamente determinata.
Il gene shcA era dal 1992 nel mirino dell’équipe italiana per via di una proteina (P52), da esso codificata, che determina la crescita cellulare, ossia lo sviluppo dalla cellula uovo alla cellula matura. Ma se questa proteina impazzisce può causare l’insorgere dei tumori. Accanto alle sue funzioni già note, però, il gene ha mostrato una proprietà inaspettata: la produzione di un’altra proteina, la P66shc, che interviene durante i processi di ossidazione delle cellule.
Normalmente le nostre cellule lavorano per lo più indisturbate fin quando non vengono in contatto con agenti “stressanti” come raggi ultravioletti, raggi gamma o prodotti di scarto della respirazione cellulare. In questi casi, la cellula reagisce con un meccanismo di riparazione oppure, quando il danno è troppo grande, con l’autodistruzione (apoptosi). Ed è proprio durante la fase di riparazione che entra in gioco il gene shcA, che fino a quel momento era rimasto inattivo.
Si potrebbe pensare quindi che eliminando questo gene i processi ossidativi e di degenerazione cellulare siano accelerati. E invece, hanno dimostrato i ricercatori dell’Ieo, accade proprio il contrario: le cellule vivono più a lungo. Per la precisione, nei topi a cui era stato sottratto lo shcA, la durata della vita si è allungata del 30%. Come e perché ciò accada è ancora tutto da scoprire. “Ma il grande passo compiuto da questa ricerca”, spiega Pelicci, “sta nel fatto che è stato dimostrato che la durata della vita è anche nei mammiferi geneticamente determinata”. Che fosse così per le mosche e per i vermi era infatti già noto. Ma dal topo all’uomo il salto biologico è senz’altro più breve.
Se da un lato lo studio, pubblicato su Nature (http://www.nature.com/), compie un grande passo avanti nella comprensione dei processi di invecchiamento, dall’altro solleva nuovi interrogativi. La teoria dell’evoluzione della specie, così come l’ha dipinta Darwin, presuppone infatti che la selezione naturale elimini i caratteri che risultano meno vantaggiosi per la sopravvivenza della specie, mantenendo invece come dominanti i caratteri più utili. Perché allora l’evoluzione avrebbe dovuto selezionare un gene che, nei fatti, funziona come una sorta di bottone dell’autodistruzione? “Sono propenso a credere”, risponde Pelicci, “che questo gene abbia una funzione vantaggiosa in fase evolutiva, ossia nei primi anni di vita, che però poi comporta un costo, che è appunto l’invecchiamento. Tale costo, tuttavia, si presenta solo dopo l’età riproduttiva. Per questo motivo la selezione naturale non si cura dei risvolti negativi del gene”.
Oltre allo shcA i ricercatori dello Ieo hanno isolato altri due geni (lo shcB e lo shcC) che regolano gli stessi processi di invecchiamento cellulare, ma la cui funzionalità è ancora tutta da definire. “Si tratta di due geni relati”, precisa Luisa Lanfrancone, ricercatrice dell’équipe di Pelicci, “ossia che hanno una struttura simile allo shcA, ma la cui funzionalità è specificatamente rivolta a un certo tipo di cellule”. In particolare, “di shcC si sa che, sulle cellule di topo studiate in vitro, aumenta le possibilità di sopravvivenza dei neuroni sottoposti a stress. Quindi è strettamente correlato ai processi di senescenza del cervello” – puntualizza Pelicci. “Ma attenzione ai facili entusiasmi”, commenta Edoardo Boncinelli, direttore del laboratorio di Biologia Molecolare del San Raffaele di Milano, “più le scoperte sono importanti, più le loro applicazioni sono lontane”.