Molte antiche novelle e leggende orientali narrano di principi accorti o di saggi avventurieri che per puro caso trovano cose non cercate e impreviste, destando meraviglia per i loro successi. Nel XVIII secolo lo scrittore inglese Horace Walpole chiamò serendipity la sagacia interpretativa che permetteva di cogliere “quello che non si stava cercando”. Il saggio di Telmo Pievani, filosofo ed evoluzionista, inizia quindi con la storia dei tre figli del re di Serendippo che, sulla base di osservazioni quasi casuali, interpretano segni e ricostruiscono eventi facendo le giuste associazioni abduttive. Poi, criticando l’interpretazione di Walpole, Pievani analizza in termini di serendipità molte ricerche e scoperte che, nei secoli, hanno orientato in direzioni impreviste il percorso scientifico.
E’ infatti importante capire se e quanto il caso entra nel suggerire nuove idee alla ricerca non solo scientifica. Cosa permette di riconoscere il caso? Quanta conoscenza e quali ragionamenti servono per accorgersi delle discrepanze impreviste, e per modificare di conseguenza i modelli di riferimento? Quali basi profonde del sapere possono sostenere le nuove interpretazioni e i cambiamenti radicali nello sviluppo del pensiero? Anche i quotidiani esperimenti di laboratorio possono servire a confermare quello che già si sa, ma se danno risultati imprevisti permettono uno sguardo su quello che non si sa, in modo da aggiustare il modello sui nuovi fatti.
La scienza dell’inatteso
Abduzione, ragionamento indiziario, fisiognomica, semiotica, osservazioni accidentali sono state considerate da tempo come componenti importanti nella storia della scienza e in particolare della medicina, nella attribuzione di opere d’arte ai loro autori, nei racconti polizieschi. Le opere di Peirce, Eco, Ginzburg, Conan Doyle sono esempi noti di come la conoscenza dei segni permetta di individuare, nei fatti, nuove interpretazioni causali, di modificare modelli esistenti, di immaginare nuove relazioni. Il caso diventa causa, ma anche la conoscenza dei segni richiede studio ed esperienza.
Pievani scrive di un importante progetto di ricerca – e di un grosso finanziamento – da parte dell’European Research Council, che vuole capire proprio come si riesca a prevedere l’imprevedibile, ed ha affidato ad un giovane sociologo, Ohid Yaqub, questo non facile compito. I risultati di Yaqub mostrano che la serendipità può essere classificata in quattro categorie.
- Trovare qualcosa che non si sta cercando
- Trovare qualcosa che si stava cercando ma per vie inaspettate, in modo inatteso
- Fare delle scoperte in seguito a indagini non mirate, libere e senza obiettivi prefissati
- Fare delle scoperte casuali, frutto di una ricerca non mirata, che possono diventare la soluzione di un problema non ancora posto, che emerge in tempi successivi.
Le scoperte mancate
In questa ricerca la scienza dell’inatteso prende in considerazione eventi (e aneddoti) certo non rari nella storia del pensiero umano; e Pievani analizza molti esempi delle diverse categorie individuate da Yaqub, a partire da Fleming e la penicillina, Feynman e l’elettrodinamica quantistica e molti altri, nei secoli. Ma riflette anche sulle scoperte non fatte, su quei fenomeni che per sfortuna o negligenza sono passati inosservati, non hanno avuto seguito, non hanno orientato in altre direzioni il corso del pensiero scientifico. Nella ricerca, finalizzata ad ottenere un risultato, non c’è spazio per la serendipità, i finanziamenti non possono sostenere ricerche “per caso”.
Errore e ignoranza
Eppure fino a non molto tempo fa la ricerca applicata, quella che mirava ad un risultato preciso, si affiancava a quella che veniva definita ricerca pura, guidata da attività speculative, da modelli plausibili da verificare, da pensieri che esploravano il non conosciuto. Come sosteneva Medawar, le scoperte scientifiche non possono essere decise a priori; il progresso nasce dal libero gioco dei liberi intelletti. La serendipità ha a che fare con il valore generativo dell’errore, con l’incertezza, con la capacità di accorgersi di piccole irregolarità che permettono di mettere in crisi i modelli e progettare qualcosa di nuovo. E forse la serendipità è un indizio delle effettive dimensioni della nostra ignoranza, permette di confrontare quello che sappiamo con quello che non sappiamo.
Citando Popper, Pievani distingue una “ignoranza cattiva”, che si nutre di certezze, di slogan, di semplificazioni; e una “ignoranza buona”, che invita a una ricerca attenta, fondata sulla consapevolezza della incredibile complessità del mondo. Questa ignoranza buona potrebbe essere proposta alle nostre università e alle nostre scuole, per far comprendere anche ai ragazzi il valore della conoscenza, lo sbilanciato rapporto tra noto e ignoto, tra quello che descriviamo in teoria e quello che succede in realtà. Un sapere attento e critico permette di accorgersi dei fatti imprevisti, delle effettive potenzialità dei modelli, del loro continuo perfezionamento e sviluppo; ma può anche potenziare la serendipità.
Caso, esperienza e conoscenza
Certo i giovani principi di Serendippo sapevano ben leggere gli indizi che permettevano di rintracciare il cavallo fuggito, ed anche il protagonista del Nome della Rosa sapeva farlo. Ma forse non si riflette abbastanza su come i principi di Serendippo e il vecchio Guglielmo da Baskerville avessero conquistato la loro incredibile esperienza sui cavalli: quanti ne avevano visti, domati, cavalcati… per riconoscerne le tracce con tanta sicurezza. La capacità di leggere gli indizi non nasce per serendipità: si conquista con fatica, studio, esperienza. Serve anche quella conoscenza che non si sa di possedere, quella – inconsapevole – che si manifesta in tutta la sua efficacia quando si ha davanti un compito difficile da risolvere. Se invece che un cavallo fosse scappato un animale sconosciuto, sarebbero stati altrettanto capaci di leggerne le tracce?
Credits immagine: Cristian Escobar on Unsplash