Sfide al Sud

Alina Eberhaim ha 25 anni e un figlio. Come altre persone del villaggio di Danja, in Niger, due anni fa ha sofferto la fame a causa della siccità e di un attacco di locuste che ha distrutto la produzione cerealicola. Problemi legati all’agricoltura anche per gli abitanti della provincia di Aguié, sempre in Niger, e della provincia di Bara, nel Sudan. Le persone come Alina, che abitano le aree rurali più povere del mondo e vivono dei prodotti delle loro terre, rischiano di essere vittime due volte: da una parte di desertificazione e siccità, dei cambiamenti climatici, dall’altra della riduzione delle colture alimentari che potrebbero lasciare il posto a quelle per i biocombustili. La voce dei contadini dei paesi in via di sviluppo ha animato tre tavole rotonde che si sono svolte durante il consiglio dei governatori del Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo (Ifad) il 13 e 14 febbraio scorso.

Tre miliardi di persone nel mondo vivono in aree rurali e dipendono dall’agricoltura e dalle attività della terra. Molti di loro vivono con meno di due dollari al giorno. Secondo le stime dell’Ippc, la produzione e l’accesso al cibo di queste persone può essere compromesso dalla variabilità del clima. Uno studio del Center for Global Development parla di un calo della produzione agricola compreso tra il 10 e il 25 per cento nel 2008. E anche l’ultimo rapporto Fao “Prospettive dei raccolti e situazione alimentare”, seppur con alcune eccezioni positive, parla di crisi alimentari: le forti piogge hanno causato gravi inondazioni e annientato i raccolti in Mozambico, Zimbabwe, Zambia e Malati e in Bolivia. Temperature basse in molti paesi centro-asiatici, soprattutto in Cina, Mongolia, Afghanistan e Tajikistan, hanno causato la distruzione di raccolti e bestiame. Mentre oltre cinque miliardi di ettari di terra sono minacciati dal rischio desertificazione, che già fa perdere ogni anno circa 12 milioni di ettari all’agricoltura.

Per far fronte al cambiamento climatico la comunità internazionale è orientata a tecniche di ‘adattamento’ o ‘di mitigazione’. Si tratta di un insieme di pratiche che consentono una coltivazione non intensiva del terreno, attività forestali per favorire l’assorbimento di CO2, riabilitazione di colture degradate o destinate al pascolo. Tutti progetti che richiedono incentivi per favorire la conservazione del suolo e l’utilizzo di pratiche sostenibili. Come quelli già messi in atto in Sri Lanka, per esempio, dove l’Ifad sostiene un programma per riabilitare le mangrovie e altri ecosistemi costali devastati dallo tsunami, per ridurre la vulnerabilità delle popolazioni agli eventi estremi. In Himalaya e nello Yemen sono invece attivi progetti di riforestazione, mentre in Cina i rifiuti animali e umani vengono trasformati in un misto di metano e gas da usare come fonte energetica per cucinare e illuminare le case.

Insieme alle mutate condizioni ambientali a minacciare la sicurezza alimentare delle popolazioni in via di sviluppo c’è la rapida ascesa del mercato dei biocombustibili. Se da una parte questi rappresentano un’opportunità di commercio per le popolazioni rurali, dall’altra queste coltivazioni non devono rubare troppo spazio a quelle delle colture alimentari. “I biocombustibili rientrano nelle pratiche di mitigazione. Le obiezioni secondo le quali le coltivazioni da cui ricavare biocarburanti sarebbero di per sé inquinanti non vale nei paesi in via di sviluppo, dove l’agricoltura è praticata manualmente e non con mezzi meccanici”, spiega Vineet Raswant, consulente tecnico dell’Ifad. “In più possono aiutare lo sviluppo rurale. Alcune colture non destinate all’alimentazione, come la Jatropha curcas e Pongamia pinnata, che crescono nelle terre marginali non produttive, possono rigenerano il suolo, a tutto vantaggio degli agricoltori e dell’ambiente. E possono essere fonte di diversificazione del reddito e creare nuovi posti di lavoro nel settore della trasformazione e dei servizi. Infatti dalla Jatropha, oltre a estrarre olio o biocarburante, si possono avere sottoprodotti come la glicerina per fare il sapone, che le donne possono poi rivendere nei mercati locali”.

Ma non mancano dei rischi per gli agricoltori. Primo fra tutti, la perdita di terra da destinare alle coltivazioni alimentari, soprattutto in paesi come l’Africa, dove non esiste la proprietà terriera e dove si potrebbero concentrare gli interessi di aziende straniere. Inoltre, una possibile caduta dei prezzi dei biocombustibili sarebbe una perdita per i contadini che hanno investito in queste colture, per non parlare delle difficoltà che i piccoli agricoltori devono affrontare per entrare nel circuito di produzione dei biocombustibili. “Per aiutare le popolazioni ad affrontare le sfide dei cambiamenti climatici e cogliere l’opportunità che i biocarburanti rappresentano per lo sviluppo rurale, servono  politiche che tengano conto dei poveri e dei gruppi più vulnerabili. Si devono assicurare il trasferimento tecnologico, servizi finanziari e coperture assicurative contro le calamità naturali”, conclude Raswant. “Per affrontare invece il problema della competizione tra terre per uso alimentare e da destinare alle colture per biocarburanti, è importante la selezione delle colture. Usando mais e grano, che sono commestibili, si sottrae un’importante risorsa all’alimentazione e si alzano i prezzi. Meglio quindi piante come la Jatropha e la Pongamia, non commestibili, oppure il sorgo dolce, la barbabietola da zucchero, la canna da zucchero, che sono anche più efficaci nell’abbattere le emissioni. Dal sorgo dolce, per esempio, che è una pianta multifunzionale, è possibile ricavare sia cibo che mangime per animali e, dal suo gambo, zucchero da convertire in biometanolo”.

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