La pandemia ha colpito duramente anche il mondo della ricerca. E a farne le spese, come capita fin troppo spesso, sono state principalmente le donne: tra gennaio e giugno del 2020, ad esempio, le scienziate hanno pubblicato l’8% di articoli in meno rispetto agli anni precedenti, e guardando alle ricerche pubblicate sul tema dell’anno, Covid 19, il numero di articoli che riportano una donna come primo autore sono stati molto meno della norma. Sveva Avveduto, emerita del Cnr che svolge attività nell’area della politica scientifica, ci ha già raccontato i motivi di questo divario di genere nella scienza, acuito inevitabilmente dall’attuale pandemia. Ma rimane un altro aspetto da affrontare: come spezzare questo circolo vizioso, e garantire alle donne la giusta rappresentazione anche nel mondo della Scienza?
Lo scienziato: nell’immaginario collettivo è di mezza età, bianco, trasandato, avulso dalle interazioni sociali. E, ovviamente, è un uomo. È quello che emerge da diversi studi sugli stereotipi della scienza: chiedendo agli adolescenti di disegnare o descrivere una persona che si occupa di scienza il ritratto che emerge è sempre lo stesso, con minime variazioni sul tema. Inoltre, il programma For Girls in Science della Fondazione L’Oreal ha trovato che i ragazzi e le ragazze intervistate considerano le materie scientifiche mascoline, fondate sul possesso di abilità innate, e qualcosa in cui le donne si cimentano a fatica. Pregiudizi che incidono molto sul futuro delle donne nelle materie scientifiche, ed è per questo che è nato il progetto “She is a scientist”, un progetto di divulgazione che vuole valorizzare l’apporto delle donne alla scienza, oltre che a scardinare gli stereotipi sugli scienziati: come si legge sul sito del progetto, il talento, la passione e la creatività richieste dalla scienza appartengono alle donne tanto quanto agli uomini. Abbiamo intervistato Nicole Ticchi, comunicatrice scientifica e ideatrice del progetto.
Come è nato questo progetto?
“Come tanti bei progetti, un po’ per caso. Io ho una formazione scientifica, sono laureata in chimica farmaceutica, ma mi sono sempre occupata di comunicazione della scienza. L’esigenza di un progetto simile è nata sia dalla voglia di raccontare l’ambiente della ricerca scientifica, sia perché ho toccato con mano cosa significa essere una scienziata in un mondo fortemente maschile: all’epoca infatti facevo ricerca all’interno di un dipartimento di Ingegneria. Potete immaginare quale fosse la percezione di una persona di sesso femminile sotto i trent’anni all’interno di un’officina di ingegneri meccanici. E per quanto tutti fossero molto gentili nei miei confronti, c’era sempre una sorta di condiscendenza nei loro atteggiamenti: passava sempre in primo piano come apparivo in quella giornata o come mi ponevo, rispetto alle mie conoscenze e competenze. Questo mi ha incuriosito, e mi ha incentivato a cercare di raccontare quello che mi succedeva quotidianamente; siccome sono una ricercatrice, poi sono andata a cercare i dati che descrivessero la situazione. Inizialmente era solo una pagina Facebook, e poi negli anni ho ampliato il progetto. Adesso, con più persone che ci collaborano, sta diventando sempre più ricco e strutturato.”
Il progetto si chiama “She is a scientist”, e vuole abbattere gli stereotipi che ci sono sulle donne e sulla scienza. Chi è allora questa scienziata?
“Quando ho pensato a questo nome ho pensato a una sorta di campagna di comunicazione in cui i ragazzi che lavoravano nell’ambito scientifico fotografavano le proprie colleghe del gruppo di ricerca, o del laboratorio, e le descrivevano dicendo “lei è una scienziata”: quindi, “she is a scientist”. Questo per mettere in luce che ci deve essere collaborazione tra figure maschili e figure femminili nell’ambito della ricerca scientifica, e incentivare il fatto che fossero gli uomini a mettere in luce le proprie colleghe. Questo è quello che ci piacerebbe avvenisse sempre di più: che non ci fosse solo supporto tra donne, ma una coesione tra tutti quelli che fanno ricerca. Vedendo quello che succede sui media, non mi sembra che stiamo andando in questa direzione: sia le donne che gli uomini, quando parlano di altre scienziate, spesso non riescono ad astrarre caratteristiche della donna di cui si parla che non dovrebbero interessare (che è mamma, oppure che le piace nuotare). Io sono ottimista: ho fiducia nelle generazioni degli studenti universitari e delle superiori, che acquisiscano un modo di narrare il lavoro delle proprie colleghe in maniera più rispettosa.”
Ha un target ben preciso? Quali sono i suoi obiettivi?
“Inizialmente l’obiettivo era proprio quello di creare un pubblico. Il rischio che si corre, infatti, è quello di parlare a persone che già conoscono l’argomento, che possono sì metterci del loro, ma non riescono a impedire che i contenuti rimangano confinati a una cerchia ristretta. Quello che mi premeva fare, invece, era sensibilizzare le persone al di fuori di questo ambito e far capire quello che succede all’interno della scienza e della ricerca alle donne. Gli obiettivi con il passare del tempo stanno aumentando e stanno diventando più concreti. Al di la di fare informazione social ci piacerebbe fare attività formativa, per cui stiamo coinvolgendo persone esterne al nostro gruppo che abbiano competenze variegate, dalla scienza alla comunicazione. L’obiettivo principale è portare consapevolezza: spiegare al grande pubblico cosa è il divario di genere nella scienza e cosa c’è dietro: dal momento che il maschilismo può emergere in molti modi, noi vogliamo riportare tante piccole sfaccettature (ad esempio quello che si legge sui media, oppure comportamenti sul luogo di lavoro) che concorrono tutti quanti a creare il fenomeno del divario di genere nella scienza. Siamo molto attenti che questo non si traduca con una mera lamentela: il nostro obiettivo è quello di avere una narrazione di tipo costruttivo.”
Hai avuto qualche esempio di casi in cui questa narrazione costruttiva ha portato a dei miglioramenti?
“Non è una battaglia contro i mulini a vento, ci sono vari esempi. Secondo me dipende molto da come si sono evolute le modalità di trattazione di questi argomenti: all’inizio io stessa trattavo molto argomenti di attualità, per avere temi di discussione. Il problema è che, in questo modo, si rischia di polarizzare le interazioni, ottenendo magari molto seguito, ma con il risultato finale di fare polemica. Adesso invece che cerchiamo di andare anche alla radice di questi fenomeni, è vero che si esclude una certa parte di pubblico, ma l’obiettivo di fare una discussione costruttiva viene centrato meglio. Si tratta sempre di scegliere cosa si preferisce: un pubblico feroce che si infervora, e non è questo il caso, o un approccio costruttivo: magari, in termini numerici, si avrà meno seguito, ma le persone che ti seguono saranno più contente e partecipative perché avranno spunti di riflessione. È un tema molto di nicchia, quindi bisogna accettare che è a un piccolo gruppo quello a cui si sta parlando, ma che presuppone un livello di interazione profondo e mai banale.”
Qual è il canale social che ha più successo in questo senso?
“All’inizio, nel 2016, il primo canale social è stato Facebook, anche perché Instagram, all’epoca, non offriva molto di più rispetto alla condivisione di foto, la divulgazione su Instagram è iniziata qualche tempo dopo. Facebook, infatti, inizialmente era la piattaforma d’elezione, perché consentiva una buona condivisione dei contenuti e di interazione con le persone; adesso invece il canale che curiamo di più è quello Instagram, perché c’è una comunità più attiva, con un coinvolgimento maggiore, e questo permette meglio di capire chi è interessato a questi argomenti. Tutto ciò al prezzo di esporsi maggiormente rispetto a Facebook: sulle storie di Instagram le persone vogliono sapere di più chi sei e cosa fai, ma grazie anche a questo si creano interazioni costruttive, contatti interessanti, è un bell’ambiente che io sto preferendo. Senza contare che adesso Facebook, a meno che non si creino contenuti polarizzanti, dà veramente poca visibilità ai post: si dovrebbero creare contenuti che infervorino le persone, in modo da farle interagire molto, ma non è quello il nostro obiettivo.”
Il vostro è un progetto che abbraccia e interseca principalmente due temi, quello del femminismo e quello della diffusione della cultura scientifica. Ci sono stati esempi, tra chi vi segue, di persone interessate alla scienza che poi si sono appassionate al femminismo, e viceversa?
“Sì, abbiamo avuto esempi di questo tipo di contaminazioni in entrambe le direzioni, anche se non so individuare il motivo preciso. Non trattando argomenti con l’approccio della protesta, ma quello dell’analisi, tipico della ricerca scientifica, mi viene da pensare che quella potrebbe essere un’affinità con chi si occupa di scienza. D’altro canto, persone impegnate nella ricerca scientifica ma non propriamente scienziate Stem (quindi magari linguiste, o storiche) hanno trovato nel progetto un ambiente inclusivo: per esempio, negli ultimi due anni per l’11 febbraio (la Giornata Internazionale delle donne nella scienza) ho organizzato l’iniziativa, rivolta alle scienziate della pagina di mandare, una loro foto durante il tempo libero, non con camici e provette: l’obiettivo era quello di evidenziare come una scienziata rimane tale anche quando fa altro, e di abbattere un po’ di pregiudizi sul lavoro della scienziata. In molte mi hanno scritto, chiedendomi se, pur non facendo attività di ricerca in laboratorio, potessero mandarmi la foto: ovviamente non c’è stato nessun problema, una storica che fa ricerca di fonti storiche negli archivi di tutto il mondo è scienziata tanto quanto una chimica che sta in laboratorio a fare esperimenti, è il tipo di metodo applicato che conta.”
Qual è l’esperienza legata al progetto che ti è rimasta più impressa?
“Gli eventi più corposi e più interessanti si sono concentrati nell’ultimo anno. Una delle cose che mi è piaciuto di più fare è stata proprio la campagna di comunicazione dell’11 febbraio, perché mi ha consentito di entrare in contatto con tantissime persone e di allargare le nostre interazioni. La campagna ha coinvolto tante scienziate che ci hanno mandato foto del loro tempo libero, per sottolineare che una scienziata è una scienziata sempre, e soprattutto per scollegare le competenze dall’aspetto fisico e dal modo in cui una persona si mostra quotidianamente. Un’altra bella esperienza è l’intervista che abbiamo fatto per il progetto europeo Supera, sul superamento delle disparità di genere nella ricerca accademica, il cui partner di comunicazione è l’università di Cagliari, che ci ha spiegato come si redige un piano di uguaglianza di genere per un ente pubblico: è interessante vedere come ormai questa è un’attività che stanno facendo tanti atenei. Questo ci ha dato modo di far vedere come le istituzioni sono presenti e hanno a cuore che si arrivi a una parità di genere, nel pubblico e nel privato, nel più breve tempo possibile.”
Il paradosso nordico: e se alle donne non interessassero le STEM?
È noto come “paradosso scandinavo” oppure “paradosso dell’equità di genere”: nei paesi più avanzati dal punto di vista della parità di genere e di welfare, sono di meno le donne che scelgono di studiare le materie scientifiche. È quanto emerge da uno studio pubblicato nel 2018 dagli psicologi Gijsbert Stoet e David Geary su Psychological Science. I ricercatori, infatti, hanno incrociato i dati, resi reperibili da Unesco, sulle donne che intraprendono facoltà Stem con quelli del Global Gender Gap Index 2016, un indicatore del World Economic Forum che misura l’uguaglianza di genere in tutti i Paesi del mondo: quello che hanno constatato è che i paesi più arretrati dal punto di vista di parità di diritti e in generale di welfare sono quelli che hanno la maggior percentuale di donne che studiano materie scientifiche. Sorprendentemente, invece, la percentuale diminuisce drasticamente quando si considerano i paesi considerati più paritari, che da tempo applicano politiche di genere: i paesi scandinavi, infatti, specialmente Danimarca e Norvegia, mostrano percentuali molto basse di donne impegnate nelle discipline Stem, che risultano essere il 27% del totale. D’altro canto, i paesi con più donne che studiano e lavorano in ambito Stem sono Algeria e Tunisia, con una percentuale sul totale che supera il 50%: tuttavia, questi paesi hanno indici di equità di genere tra i più bassi al mondo. Perché accade questo fenomeno? Una spiegazione che i ricercatori hanno provato a dare è che le discipline STEM sono viste come una via per l’emancipazione: dal momento che materie come matematica, ingegneria e fisica sono più richieste e meglio retribuite dal mondo del lavoro, le donne si cimenterebbero in carriere di questo tipo per ottenere l’indipendenza economica. In paesi con un buon livello di welfare, in cui, grazie anche a politiche di genere, le donne sono più tutelate, queste si sentirebbero più libere di scegliere cosa studiare senza focalizzarsi troppo sulle prospettive occupazionali. E quindi, non sceglierebbero le Stem. Un recente studio pubblicato su PNAS, a cura di un team di ricerca dell’Università di New York, ha messo in evidenza però che, in realtà, gli stereotipi che considerano le materie scientifiche, e in particolare la matematica, come più maschili che femminili sono più forti nei paesi che hanno una maggiore equità di genere. Questi stereotipi favorirebbero la segregazione occupazionale, nonostante le politiche di genere attuate con successo: alla luce di questo studio, appare evidente come il divario di genere nella scienza sia un problema culturale, ben radicato anche nelle società più avanzate. A supporto di questa visione, bisogna sottolineare che esiste anche un altro “paradosso nordico”: i paesi scandinavi, infatti, sono i paesi con i più elevati tassi di violenza di genere, che rappresenta forse l’estremo della diseguaglianza.
Credits immagine di copertina: Jake Melara on Unsplash
Articolo prodotto in collaborazione con il master SGP della Sapienza Università di Roma