La vita è un sogno? O, piuttosto, i sogni aiutano a mantenere intatta la corteccia visiva? La seconda che abbiamo detto, almeno stando a un paper apparso su BioRxiv – ma non ancora passato attraverso il processo di peer review – a firma di David M. Eagleman e Don A. Vaughn, il primo del Dipartimento di Psichiatria e Scienze del comportamento della Stanford University School of Medicine, il secondo del Semel Institute for Neuroscience and Human Behavior della University of California Los Angeles.
Competizione tra i sensi
È la teoria dell’attivazione difensiva. Per spiegare la quale, i due ricercatori partono da un assunto. Come in una guerriglia di posizione tra contendenti, dicono Eagleman e Vaughn, le regioni del cervello che sovrintendono alcune funzioni (vedere, sentire, toccare eccetera) devono mantenere presidiato il proprio territorio attraverso una attività continua. Se questa attività rallenta o si ferma – per esempio a causa di cecità o sordità – il territorio neuronale viene invaso, per così dire, dalle funzioni contigue. E questo accade in tempi estremamente rapidi, per altro: bastano poche ore con una benda sugli occhi per innescare un piccolo processo di invasione del territorio relativo alla visione da parte del tatto o da altri sensi. Lo dimostra uno studio, dicono Eagleman e Vaughn, condotto nel 2008 su volontari vedenti, tenuti bendati per cinque giorni e sottoposti a un intenso programma di allenamento alla scrittura Braille. Alla fine del periodo, i partecipanti riuscivano a distinguere le minime differenze tra i caratteri assai meglio del gruppo di controllo, composto da vedenti non bendati che avevano seguito lo stesso tipo di addestramento, grazie a una maggiore attività delle aree cerebrali relative al tatto e all’udito. Dopo aver tolto la benda, la risposta di quelle aree a stimoli tattili e uditivi era tornata normale. È questo il cuore della neuroplasticità: la capacità del cervello di ridefinirsi in relazione agli eventi, cioè la capacità delle aree associate alle diverse modalità sensoriali di guadagnare o perdere territorio neuronale quando gli input rallentano, si fermano o si modificano.
L’attività onirica come presidio notturno
Se questo è vero, ipotizzano allora i due ricercatori, se cioè basta così poco tempo – poche ore, persino – per rimodellare le aree cerebrali e consentire quindi che altre funzioni prendano il controllo di quelle inattive, come può il sistema visivo vincere questa competizione se per 12 ore al giorno in media, a causa della rotazione terrestre, l’umanità è costretta a vivere al buio (beninteso: l’umanità su scala evolutiva, non quella del nostro presente fatto di luce artificiale)? E dunque come può il cervello, in queste ore di deprivazione sensoriale, evitare che l’area della visione non venga occupata militarmente da altri sensi? Semplice, rispondono i due: grazie ai sogni, in particolare quelli che avvengono in alcune fasi del sonno.
“Uno dei misteri irrisolti delle neuroscienze”, scrivono nel loro paper, “è il motivo per cui sogniamo. Le nostre bizzarre allucinazioni notturne hanno un significato o sono semplicemente attività neurali casuali alla ricerca di una narrazione coerente? E perché i sogni sono così altamente visivi, tanto da attivare in modo evidente la corteccia occipitale?”. Il motivo, anticipano Eagleman e Vaughn, sarebbe proprio quello di consentire all’area della visione di restare in attività e di presidiare il suo territorio.
Gli uomini, che gran sognatori
La fase del sonno di cui parlano i due scienziati è quella Rem (da Rapid Eye Movement, in cui gli occhi si muovono con movimenti ritmici molto veloci). Nella specie umana, ogni 90 minuti circa il sonno è intervallato da fasi di sonno Rem, quelle nelle quali si verifica la maggior parte dei sogni, o quantomeno di quelli caratterizzati, dicono i ricercatori, da vividezza visiva e componenti allucinatorie. La fase Rem è innescata da un gruppo di neuroni specifici che paralizzano i principali gruppi muscolari mantenendo così il corpo immobile durante il sonno. Contemporaneamente, la corteccia visiva viene attivata, così che il cervello possa simulare un’esperienza visiva in condizioni di immobilità. “È come se stessimo vedendo anche se i nostri occhi sono chiusi”, dicono i ricercatori. Che si spingono oltre nella loro ipotesi: maggiore è la plasticità neuronale di un organismo, maggiore dovrebbe essere il rapporto tra sonno Rem e non-Rem.
Per verificarla, i ricercatori hanno confrontato 25 specie di primati alla ricerca di una correlazione tra sonno Rem e plasticità neuronale – intesa come tempo che intercorre tra la nascita e la capacità dei piccoli di camminare, lo svezzamento e l’adolescenza, dunque il ritmo di sviluppo delle diverse specie. E hanno riscontrato che i primati i cui piccoli imparano a camminare più velocemente e a raggiungere rapidamente la maturità tendono ad avere una quantità inferiore di sonno Rem, mentre gli umani, ovvero i primati a maturazione più lenta, hanno una maggiore quantità di sonno Rem. Non solo: all’interno della specie umana, il sonno Rem si riduce con l’età, di pari passo con la plasticità neuronale dovuta all’invecchiamento. Quindi: un tempo di sviluppo breve equivale a una neuroplasticità più lenta, e una neuroplasticità più lenta significa minore necessità di proteggere la corteccia visiva dall’invasione.
Un’ipotesi da provare
La teoria dell’attivazione difensiva dei sogni, però, per quanto affascinante, non convince tutti. Tra le critiche mosse ai due ricercatori il fatto che, come ammettono essi stessi, l’ipotesi potrebbe essere “verificata più accuratamente con misure dirette di plasticità corticale”. Per esempio, concludono, chiedendo a un gruppo di volontari di sottoporsi a risonanza magnetica per stabilire l’estensione della loro corteccia visiva, poi bendarne la metà, farli dormire e interrompere selettivamente le fasi di sonno Rem durante la notte, valutando poi gli effetti sull’area cerebrale al mattino.
Via Wired
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