La solitudine è stata definita da Daniel Perlman e Letitia Anne Peplau nel 1981 come lo stato psicologico in cui esiste una discrepanza tra la qualità che un individuo desidera per i propri rapporti sociali e la loro qualità effettiva. Già in passato la solitudine è stata collegata a un aumento del rischio di sviluppare diverse patologie, e in generale essa ha conseguenze non trascurabili sulla nostra salute. Uno studio condotto nel 2009, ad esempio, ha mostrato come le persone che soffrivano la solitudine avevano più probabilità di sviluppare malattie come le coronaropatie, alterazioni dei vasi sanguigni che portano sangue al cuore. In generale, le persone che si sentono sole hanno il 26% di probabilità in più di morire prematuramente, una statistica che rivaleggia con gli effetti dell‘obesità e dell’inattività sulla salute.
Nonostante sia chiaro che un legame sussiste tra solitudine e sviluppo di patologie, più sfumato è il collegamento, invece, con i sintomi somatici, ossia sintomi che fanno pensare alla presenza di una patologia ma che hanno in realtà cause psichiche. Ricerche recenti sembrano infatti indicare la solitudine come una delle cause dell’insorgenza di sintomi somatici cronici, come ad esempio stanchezza e affaticamento. Uno studio pubblicato su Health Psychology cerca di fare luce su questo collegamento.
Alla ricerca hanno preso parte 159 partecipanti di età comprese tra i 18 e i 55 anni, a cui sono state date delle gocce per il naso contenenti un virus del comune raffreddore (RV39). I pazienti sono stati messi in quarantena in un albergo per 5 giorni, dove potevano essere monitorati dai ricercatori, e hanno compilato un resoconto giornaliero dei sintomi (ad esempio naso che cola, starnuti, mal di gola, mal di testa e brividi).
La solitudine dei partecipanti è stata stimata utilizzando la Short Loneliness Scale, un questionario in grado di stimare la qualità dei loro rapporti sociali utilizzando tre domande, a cui i pazienti devono rispondere con un numero da 1 (mai) a 4 (molto spesso). In particolare, le domande sono: “In generale, quanto spesso ti senti come se non avessi abbastanza compagnia?”, “In generale, quanto spesso ti senti escluso?”, “In generale, quanto spesso ti senti isolato dagli altri?”. La somma delle risposte dei partecipanti viene utilizzata per determinare un punteggio e usata come indice del livello di solitudine.
Allo stesso modo, i ricercatori hanno utilizzato il Social Network Index (SNI) per determinare la dimensione e la varietà dei gruppi sociali dei partecipanti. L’SNI calcola la partecipazione del paziente in 12 diversi tipi di relazione sociale (ad esempio con il proprio partner, genitore, figlio etc.), mentre la dimensione del gruppo sociale è ottenuta sommando il numero di individui con cui il partecipante interagisce almeno una volta ogni due settimane.
Dai risultati, è emerso che i partecipanti più soli non avevano più probabilità di sviluppare l’infezione rispetto agli altri, ma avevano sintomi più gravi una volta infetti. Questo succedeva anche dopo aver corretto i risultati per tener conto di fattori quali età, genere, educazione, reddito, stato civile e indice di massa corporea. Dai dati è anche emerso che la dimensione del gruppo sociale di una persona, ossia il numero di persone con cui interagisce regolarmente, o la sua varietà, ossia la presenza di genitori, amici, partner nel gruppo, non avevano un impatto sulla severità dei sintomi riportati. Secondo gli scienziati, questo vorrebbe dire che è la qualità percepita di questi rapporti sociali che influenza il modo in cui essi percepiscono i loro sintomi, più che la quantità o la varietà delle loro relazioni. “Detto semplicemente, le persone che soffrono di solitudine si sentono peggio quando stanno male rispetto agli altri,” hanno concluso i ricercatori.
Riferimenti: Health Psychology doi: 10.1037/hea0000467