Sono quasi quattromila i bambini che ogni giorno muoiono per infezioni intestinali trasmesse attraverso acqua non potabile, e oltre un miliardo le persone che ancora non hanno accesso a questa risorsa essenziale. Sia nei paesi in via di sviluppo sia in quelli industrializzati, inoltre, cresce il numero dei contaminanti pericolosi presenti nell’acqua, come ammoniaca, acido idrocloridrico, idrossido di sodio, ozono, permanganati e sali di ferro. Spesso derivanti dagli stessi trattamenti chimici per la depurazione dell’acqua. Inoltre, i metodi attualmente utilizzati dai paesi industrializzati per la disinfezione e la desalinizzazione sono, in molti casi, difficili da sostenere dal punto di vista economico, energetico e delle infrastrutture necessarie. In una review firmata da ricercatori di diversi istituti e università, tra cui il Massachusetts Institute of Technology (Mit) e il Center for Advanced Materials for the Purification of Water with Systems-WaterCampws dell’Università dell’Illinois, in occasione della giornata mondiale dell’acqua, Nature fa il punto sullo stato dell’arte dei sistemi di potabilizzazione.
Le strategie in studio stanno tentando di ridurre il ricorso a composti chimici, di individuare, trasformare o rimuovere i contaminanti pericolosi anche a basse concentrazioni, e di abbattere i costi delle tecnologie per il riutilizzo e la desalinizzazione delle acque. Per quanto riguarda il controllo di batteri e parassiti, i sistemi utilizzati nei paesi in via di sviluppo e industrializzati sono, in via di principio, simili: l’acqua viene attualmente trattata con cloro e ozono, o con cloro e raggi ultravioletti, combinazioni che riescono a eliminare alcuni protozoi (come Cryptosporidium parvum) su cui il solo cloro non ha effetto. Nel terzo mondo, le agenzie internazionali e le organizzazioni non governative hanno infatti introdotto recentemente l’uso di bottiglie nere di polietilene tereftalato (Pet) che sfruttano la radiazione solare per inattivare foto-chimicamente gli agenti patogeni, e stanno promuovendo l’uso dell’ipoclorito di sodio.
Stando a quanto riportato su Nature, queste iniziative hanno effettivamente abbassato l’incidenza delle patologie gastrointestinali. A causa, però, delle scarse condizioni igienico-sanitarie di molti paesi in cui l’emergenza è più sentita, l’acqua contiene spesso ammoniaca e azoto di origine organica che reagiscono con l’ipoclorito di sodio e danno luogo a derivati del cloro inefficaci contro i virus. In presenza di alte concentrazioni di materia organica inoltre, si possono formare prodotti secondari tossici (DBPs, disinfection by-products).
Per questo in futuro c’è chi pensa di utilizzare la radiazione ultravioletta con materiali foto-catalitici, che reagiscono alla luce modificandosi. Tra questi, l’ossido di titanio irradiato sembra in grado di inattivare i virus. Se l’applicazione di questa tecnologia per la disinfezione sembra lontana per le nazioni del terzo mondo, altrettanto lo sono quelle per la decontaminazione. Due le problematiche principali: la lista rossa delle sostanze nocive si sta allungando rapidamente e sono molte quelle pericolose anche a basse concentrazioni. La rilevazione e la rimozione chimica di metalli pesanti e di elementi tossici su grandi volumi di acqua prevedono, al momento, processi troppo dispendiosi e potenzialmente pericolosi. Non solo: spesso non è sufficiente rilevare la presenza dell’elemento nocivo, ma è necessario poter distinguere i vari isotopi, come nel caso dell’arsenico dove l’isotopo 3 è cinquanta volte più dannoso dell’isotopo 5. I sistemi di monitoraggio efficienti, però, richiedono una tecnologia sofisticata.
Accanto a un approccio fortemente tecnologico, che spinge la ricerca a creare nuovi sistemi – come le membrane a nanotubi di carbonio per la desalinizzazione – vi è quello che prevede il recupero dei metodi tradizionali, magari riadattati ai nuovi ambienti urbani: “Il sistema fito-depurativo tipico delle paludi per esempio è stato sperimentato in Germania”, racconta Pietro Laureano, urbanista e consulente Unesco per le zone aride e gli ecosistemi in pericolo. Si tratta di una vasca verticale di vetro che sfrutta la capacità naturale delle piante di filtrare gli inquinanti. L’acqua da depurare viene fatta percolare per gravità da un livello all’altro, senza bisogno di utilizzare energia. “Il problema non è solo la disponibilità dell’acqua potabile o il costo della sua purificazione”, continua Laureano: “Insieme agli sforzi fatti sul fronte della ricerca, ci dovrebbe essere uno sforzo politico per cercare di razionalizzare la risorsa. Pensiamo a una realtà vicina come quella di Firenze dove l’acqua dei rubinetti è quella dell’Arno: viene depurata con costi altissimi, per poi essere utilizzata come acqua potabile solo per lo 0,5 per cento”.
Per la diffusione delle buone pratiche e il recupero delle tecniche tradizionali da un anno è partito un progetto finanziato dal Ministero dell’ambiente e dalla Convenzione delle Nazioni Unite per la Lotta alla Siccità e la Desertificazione (Unccd): “La Tkwb (Traditional Knowledge against desertification and for a sustainable future in the Euro-Mediterranean)”, spiega il ricercatore coinvolto nell’iniziativa, “è una banca delle conoscenze, che raccoglie le strategie di ciascun paese contro la siccità e la desertificazione. La sede sarà a Firenze e per giugno è prevista la prima conferenza istituzionale”.