Le donne e la scienza sembrano procedere su cammini distanti di cui per lungo tempo la storia ha ritardato l’incontro. Due dati sono sufficienti a dar conto di questa difficoltà: le scienziate insignite del premio Nobel sono solo dieci, nonostante la popolazione femminile con titolo di studio superiore abbia toccato nel nostro secolo percentuali sempre più alte; il numero delle donne cui vengono affidati ruoli di rilievo nella ricerca e nelle istituzioni è ancora molto esiguo, malgrado da anni gli istituti scientifici delle università siano frequentati soprattutto da ragazze. Per capire i motivi della scarsa presenza femminile nella storia della scienza, le ragioni delle defezioni che si verificano alla fine della carriera scolastica e la natura degli steccati nelle cosiddette discipline “eccellenti”, il Centro Eleusi – Pristem dell’Università Bocconi di Milano ha avviato nel 1997 uno studio che ha già prodotto due momenti di sintesi: la mostra itinerante Scienziate d’Occidente. Due secoli di storia sulla presenza delle donne nelle “scienze dure” a partire dalla seconda metà dell’Ottocento e il quaderno Donne di scienza, cinquanta biografie dall’antichità al duemila che ha ampliato la ricerca. Un altro obiettivo dell’indagine è stato quello di dare visibilità alle scienziate, di mostrarne i visi e l’aspetto fisico per strapparle all’anonimato.
Un racconto storico
Si è preferito un percorso storico, con l’idea di analizzare i fatti e di lasciar parlare ciò che è stato realizzato, indipendentemente da teorizzazioni e pregiudizi. Sono state privilegiate studiose le cui opere e scelte di vita sono sembrate particolarmente indicative di un modo di stare nella scienza – da Teano di Crotone, moglie di Pitagora, matematica e filosofa del VI secolo a.C., fino a Vandana Shiva, fisica indiana che ha fondato un movimento contro le manipolazioni genetiche – o che sono state significative per la storia delle donne più in generale, come la fisica serba Mileva Maric, infelice moglie di Albert Einstein, il cui lavoro non è ricostruibile con certezza perché totalmente assorbito da quello del grande scienziato, o, Maria Sibylla Merian, pittrice ed entomologa tedesca vissuta nel Seicento, che all’età di 52 anni ebbe il coraggio di abbandonare il marito e di partire per la Guiana Olandese con le figlie, per completare le sue ricerche sulle metamorfosi degli insetti.
Sono soprattutto le vicende delle scienziate vissute fino all’Ottocento, quando alle donne era negata un’istruzione adeguata, quelle che rivelano alcune costanti rispetto al ruolo che la società ha avuto nei loro confronti. Nelle biografie delle donne che si sono affermate, si nota la presenza di una figura maschile molto importante, un marito, un tutore, un padre o un fratello, che fornisce a una fanciulla, particolarmente dotata, l’istruzione negata dalle istituzioni. Le coppie più famose sono quelle formate dalla matematica Ipazia e dal padre Teone, dall’astronoma Caroline Herchel e dal fratello William, da Sofie e Tycho Brahe, e dai coniugi Lavoisier, fondatori della chimica moderna. Un’altra costante è l’attenzione molto viva per le poche donne che si imponevano in virtù delle proprie capacità e quella altrettanto sollecita a impedire che il fenomeno si estendesse, escludendole per esempio dalle università e dalle accademie.
La matematica Maria Gaetana Agnesi, bambina prodigio vissuta nel Settecento, dall’età di 9 anni veniva esibita dal padre nella casa milanese, alla presenza di intellettuali locali o di passaggio e si confrontava con loro su temi filosofici e matematici, rispondendo a ciascuno nella sua lingua, ma non poteva frequentare corsi di studi regolari. Mary Somerville, ricordata come “la regina della scienza ottocentesca”, scrisse libri che vennero adottati nei corsi dell’Università di Oxford, un luogo in cui non poteva neppure metter piede, perché vietato alle donne.
Le dimenticate
Si osserva infine la caduta a picco della memoria storica riguardo alle donne di scienza e al loro operato, un fenomeno favorito dal fatto che quasi sempre, per essere prese in considerazione, dovevano pubblicare col nome dei mariti o con uno pseudonimo maschile e perciò, spesso, le loro opere venivano attribuite ai maestri. Sophie Germain, nell’Ottocento, si firmava Monsieur Le Blanc per poter comunicare con la comunità dei matematici. Il nome di “Trotula de Ruggiero”, riportato sui trattati dell’autrice, medica medievale della rinomata Scuola delle Mulieres Salernitanae, fu invece storpiato in “Trottus” nelle trascrizioni successive, perché allora era impensabile che una donna avesse competenza in campo medico.
Il secolo d’oro, l’Ottocento
E’ stata l’apertura delle università alle donne, avvenuta per la prima volta nel 1860 a Zurigo, a segnare una svolta, indicando il momento in cui il contributo femminile alla ricerca scientifica ha potuto estendersi in tutte le direzioni, anche se in molti casi era già troppo tardi perché le scienziate potessero intervenire nell’elaborazione dei fondamenti teorici delle discipline. Prima di allora solo le Università italiane avevano insignito di un titolo accademico, ma in via eccezionale, alcune donne ritenute speciali, come la nobile veneziana Elena Cornaro Piscopia, prima al mondo ad ottenere una laurea – attribuitale dall’Università di Padova nel 1678 in filosofia – o come Laura Bassi e Anna Morandi Manzolini, che la ottennero dall’Università di Bologna nel Settecento, rispettivamente in fisica e in medicina. Questo primato dell’Italia mi sembra significativo anche per interpretare alcuni dati recenti forniti dall’ Unesco.
Nel Rapporto Mondiale sulla Scienza del 1996 si legge che, mentre a raggiungere un diploma superiore sono in maggioranza le ragazze (che rappresentano il 52 per cento), nei corsi di laurea ad indirizzo scientifico la percentuale scende al 25 per cento. La situazione migliore è proprio quella dell’Italia (dove invece il 54 per cento della popolazione studentesca delle facoltà scientifiche è costitutito da ragazze) e ciò conferma, a mio avviso, quanto sia importante il modello culturale di un paese per incoraggiare o meno le studentesse ad affrontare le carriere scientifiche.
Donne di scienza, ognuna è diversa ma con delle affinità
Dalle biografie delle scienziate non emergono invece costanti importanti riguardo alle loro capacità personali o al loro modo di essere. Non si ritrova uno stereotipo di scienziata, tantomeno quello tramandato dalla letteratura romantica di una donna poco femminile, troppo di testa e quindi poco di cuore, a volte stravagante e magari un po’ ridicola. Le caratteristiche comuni sembrano essere di altra natura: da sempre le donne si sono riservate il campo della divulgazione e più recentemente tale vocazione, che in epoche passate ha indotto a realizzare traduzioni o a compilare manuali, si esprime affiancando all’attività di ricerca quella didattica.
Grandi divulgatrici furono: Ipazia di Alessandria, che commentò le opere di Diofanto, Apollonio, Tolomeo ed Euclide; la duchessa Margaret Cavendish, dama di scienza autodidatta, che nel Seicento scrisse pubblicazioni sulla filosofia naturale meccanicista; la marchesa du Chatelet, che nel Settecento contribuì a divulgare le nuove teorie di Newton traducendone i Principia; Mary Somerville che nell’Ottocento tradusse e commentò tra l’altro la Meccanica celeste di Laplace. A questo proposito mi sembra doveroso citare Margherita Hack, che da 40 anni ci dedica la mediazione del suo sapere specialistico, scrivendo libri di astrofisica che sono un esempio di come si possa fare divulgazione di argomenti complessi rendendo le cose semplici, senza banalizzare.
Altre costanti, relative al modo di stare nella scienza delle donne, sono state la pazienza e la tenacia nel condurre a termine ricerche che, soprattutto prima dell’invenzione del calcolatore, richiedevano lunghissimi tempi in calcoli precisi e laboriosi, oppure in tecniche estenuanti e faticose, come ad esempio i lavori delle équipes di solo donne che infaticabilmente e per decenni hanno lavorato ai due più importanti cataloghi stellari dell’Ottocento: il catalogo fotografico La Carte du Ciel, cui hanno partecipato le Suorine della Specola Vaticana, e quello Fotometrico di Harvard.
Un’altra costante ancora è stata la straordinaria sapienza nell’operatività pratica, che spesso si è tradotta nella vera e propria invenzione e costruzione di nuovi strumenti dall’astrolabio di Ipazia, al bagnomaria di Maria l’Ebrea, la più importante alchimista dell’antichità, fino alle apparecchiature accurate della fisica nucleare Chien-Shiung Wu, una delle ottantatre scienziate che hanno partecipato, negli anni Quaranta, al Progetto Manhattan per la costruzione della bomba atomica.
Le prerogative citate sopra “la pazienza, la tenacia, l’ operatività pratica”, hanno una valenza ambigua e sembrano riduttive in quanto richiamano qualità domestiche da sempre attribuite al femminile, però fanno risaltare, per contrasto, la genialità e il ruolo eminente che altre scienziate hanno ricoperto in diversi settori. Basti ricordare Emmy Noether fondatrice dell’Algebra moderna, Sonja Kovalevskaja, prima donna docente in una università, Rosa Luxemburg e Joan Robinson, accomunate dalla visione secondo cui la teoria economica può e deve avere rilevanza nella pratica politica, Rosalind Franklin che ha trovato le prove sperimentali della struttura a doppia elica del Dna, Lise Meitner che per prima ha interpretato correttamente il fenomeno della fissione nucleare o la Nobel Barbara McClintock che con le sue ricerche ha rivoluzionato la genetica classica lavorando con un metodo, definito “sintonia con l’organismo”, che risulta molto diverso dal classico paradigma dell’oggettività scientifica.
Le donne di scienza sono state spesso presenti da pioniere in settori nuovi o di frontiera della ricerca: la fondatrice dell’ecologia è stata Ellen Swallow, nel 1870, ma il settore fu classificato allora come “economia domestica”; la matematica Ada Byron, figlia del famoso poeta, nell’Ottocento ha anticipato i principi organizzativi del calcolo automatico moderno, le basi dell’informatica. Quando però il nuovo campo si consolida, arrivano le istituzioni, il potere e i soldi, il numero delle ricercatrici diminuisce vertiginosamente. Quali sono i motivi di questa esclusione?
I risultatii delle ultime ricerche sembrano far piazza pulita dei luoghi comuni che la attribuivano al fatto che le donne stesse si autoemarginano o per una scarsa attitudine alla competizione o perché non accettano i modi del lavoro maschile, oppure perché ancora penalizzate dal diverso carico nella divisione del lavoro familiare e mettono in evidenza come le ricercatrici vengano deliberatamente scoraggiate dal dedicarsi alla scienza, attraverso precariati più lunghi, paghe più misere e giudizi più sprezzanti sul loro lavoro.
Le donne possono dare un contributo specifico alla scienza?
Dopo aver riportato alcuni risultati della ricerca, mi sembra importante segnalare le questioni ancora aperte. La prima è se si possa parlare di un “genere” della scienza, se esista cioè un modo specifico delle donne di accostarsi al sapere scientifico, la seconda se la presenza sempre maggiore delle donne nella ricerca – le Facoltà di Biologia e di Medicina sono addirittura prevalentemente femminili – possa renderla migliore.
Chi risponde in modo negativo alla prima domanda ritiene che la scienza sia solo un modello matematico della realtà e come tale non abbia senso attribuirle un sesso, poiché si tratterebbe di un pensiero che ha in sé i parametri della propria validità ed è quindi indipendente da chi lo formula. Affermare invece che esiste un approccio “femminile” alla scienza è rischioso. Il rischio consiste nel dire banalità o nell’arrivare a sostenere posizioni decisamente discutibili, come hanno fatto alcuni movimenti femministi statunitensi o del mondo anglosassone, quando hanno affermato che la scienza è contraria alla natura delle donne, che urta la loro sensibilità e le ferisce, perché le donne sono dalla parte della Natura e una cultura di dominio non può essere per loro.
Una risposta originale è quella di Agnese Seranis, che nel libro Il filo di un discorso, edito da Eura Press, pone l’accento sulla identificazione con l’oggetto di ricerca, sulla passione. Scrive l’autrice “Noi donne siamo come delle immigrate nei territori della scienza, veniamo dalle cucine, dalle camere da letto e siamo abituate a sognare ad occhi aperti. Quando cucino, pulisco la verdura… cosa credi che faccia? Penso? Non proprio… vedo. Vedo delle immagini che si concatenano una all’altra… E mi dico che in noi donne, nel nostro Dna si è fissato una specie di talento visionario di cui ancora non siamo totalmente consapevoli e che non siamo capaci di sfruttare”. Secondo la Seranis le donne dovrebbero quindi riconoscere e valorizzare la visionarietà della loro mente, la strada percorsa da Barbara McClintock, l’unica scienziata che se lo sia permesso.
La nostra ricerca sembra indicare che si possa parlare di un approccio femminile al sapere scientifico, almeno per due aspetti: le scienziate danno più importanza al linguaggio cioè alla parola, al modo di esprimere i contenuti delle ricerche e danno anche più importanza alla tecnica, intesa sia come tecnologia che come pratica, metodo, calcolo. Queste capacità, che non sono da ascrivere al Dna o ai cromosomi, ma che sono legate alle condizioni in cui storicamente le donne hanno operato, diventano adesso sempre più importanti e io credo possano portare alla ricerca un contributo di genere.
Una risposta affermativa anche alla seconda questione è legata al fatto che la nuova scienza – che si presenta oggi con il volto della Biologia – pone quotidianamente problematiche complesse e l’idea che siano gli scienziati a fabbricare il vivente e a modificarlo, proprio come fossero degli dei, non può non sconvolgere il nostro mondo simbolico e il nostro rapporto con la natura. La velocità dei processi di cambiamento è così rapida, che non riesce ad essere accompagnata da una riflessione adeguata sulle direzioni della ricerca. Per questo motivo la capacità delle donne di interrogarsi di più sul tipo di lavoro che stanno facendo e di preoccuparsi della comunicazione di quello che stanno studiando diventa adesso ancora più importante, perché riuscire a porre domande, a guadagnare tempi per la riflessione e parole per la comunicazione implica assunzione di responsabilità nell’elaborare le forme del nostro futuro e rappresenta certamente un valore aggiunto nella ricerca.
BIBLIOGRAFIA
Per maggiori Informazioni sulla mostra “Scienziate d’Occidente” e sulle sue ricadute nella didattica vedi il sito http://matematica.uni-bocconi.it alla voce “News” . Altri interventi sul rapporto donne e scienza nel sito dell’università delle donne di Milano http://linda.it