Il 9 luglio scorso è nato il più giovane Stato al mondo, il 193° per l’esattezza. Si chiama Sud Sudan, e la sua indipendenza dall’ex Sudan è stata sancita da un referendum che si è svolto nel gennaio 2011. Il 98% della popolazione si è espresso in favore della separazione dal governo di Karthoum, la vecchia capitale situata nel Nord. Dopo 50 anni di guerra civile il paese si avvia lungo un difficile cammino di riappacificazione, come sancito dal Comprehensive Peace Agreement (Cpa) firmato nel 2005.
Il neopresidente Salva Kiir, appena insediato nella città di Juba, dovrà aiutare la sua nazione ad affrontare problemi molto gravi. L’estrema povertà in cui vive la popolazione è esasperata dalla presenza di abbondanti giacimenti di petrolio che il paese non sa ancora come sfruttare a pieno. Inoltre, le frammentazioni all’interno del partito ribelle che ha guidato la lotta di secessione, il Sudan Peoples’ Liberation Movement (Splm), potrebbero incrinare la stabilità del paese. Abbiamo chiesto un parere sulla situazione a Lia Quartapelle, esperta di questioni africane presso l’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (Ispi) di Milano.
Dottoressa Quartapelle, quali sono gli eventi storici che hanno portato all’indipendenza del Sud Sudan?
“L’indipendenza del Sud Sudan è solo l’ultima parte di un lungo processo politico avviatosi almeno 50 anni fa, quando l’intero Sudan si liberò dalla dominazione anglo-egiziana. Da allora, il paese è sprofondato in una guerra civile, la più lunga al mondo, che è poi terminata nel 2005 con gli accordi di pace firmati in Kenya (Cpa). Raccontare tutta la storia che ha portato all’indipendenza del paese è forse troppo complicato, per cui conviene soffermarsi sugli eventi degli ultimi sei anni”.
Che cosa è accaduto in particolare?
“Gli accordi del 2005 prevedevano di varare un assetto istituzionale che permettesse agli abitanti del Sud Sudan di andare al voto per decidere se restare parte del Sudan o diventare indipendenti. Da quella data, il percorso che ha portato al referendum di gennaio è stato tutt’altro che scontato. Nonostante l’assetto formale degli accordi, l’ex leader dello Splm John Garang era contrario all’idea di formare uno stato indipendente. Garang ambiva infatti a diventare il presidente dell’intero Sudan, ma è morto proprio nel 2005 a causa di un incidente aereo. La sua scomparsa ha quindi lasciato spazio ai progetti della fazione Splm pro-indipendenza, di cui fa parte anche il neopresidente Kiir”.
Quali sono le principali differenze tra Nord e Sud Sudan?
“Si tratta di due regioni profondamente diverse tra loro. Il Nord è abitato da una popolazione a maggioranza musulmana (32 milioni di abitanti), mentre il Sud è popolato da una minoranza di origine bantu che professa una religione cristiano-animista (8 milioni). Il Sud Sudan rientra a tutti gli effetti nella categoria dei paesi sottosviluppati. Ha sofferto gli effetti negativi di 50 anni di guerra civile durante i quali il governo di Khartoum ha evitato di investire capitali nella zona meridionale controllata dai ribelli. Metà della popolazione vive con meno di un dollaro al giorno, mentre l’intera regione – grande quanto la Francia – conta appena 4000 km di strade, per la maggior parte sterrate. L’assistenza umanitaria internazionale dovrà quindi impegnarsi su tutto il territorio nazionale, ma anche il Nord Sudan sta affrontando una situazione difficile. Dopo l’indipendenza del Sud, il paese ha perso il 75% dei proventi derivati dal petrolio. Il presidente Omar al-Bashir ha varato un piano di austerità per far fronte alla crisi, senza tener conto delle aree del Darfur e del Kordofan, dove ci sono movimenti e ribellioni che potrebbero avviare un processo molto simile a quello del Sud Sudan”.
Ha accennato alla questione petrolifera: c’è il rischio che le politiche per il controllo delle risorse possano condurre il paese verso una nuova guerra?
“La spartizione del petrolio rappresenta sicuramente un problema spinoso, ma la situazione merita di essere analizzata nel complesso. Nord e Sud Sudan hanno di fronte un periodo di sei mesi per risolvere due importanti punti dell’agenda petrolifera: come dividere tra di loro i proventi dell’oro nero e come gestire la regione di Abyei. Questa è una zona di confine a cavallo tra i due Stati che, a differenza di quanto si possa pensare, non è particolarmente ricca di petrolio. Piuttosto, è un territorio molto complesso perché teatro dei lunghi tragitti migratori di alcune popolazioni nomadi di stampo guerriero. Gli Stati del Sudan dovranno perciò avviare delle negoziazioni sulla gestione delle risorse naturali: si tratta di decisioni che giocheranno un ruolo delicatissimo, soprattutto per i contesti politici informali e poco strutturati che caratterizzano molti paesi africani. Se nella regione di Abiey non venisse definito un assetto condiviso da tutti, allora potrebbe scoccare la scintilla che porterà all’innesco di nuovi conflitti armati”.
E a che punto sono le trattative per risolvere la questione di Abyei?
“Al momento non è stato ancora raggiunto un accordo definitivo. Il Nord ha occupato parte della regione prima della dichiarazione di indipendenza del Sud. Non si capisce bene se questa azione rappresenti una manovra per ridefinire politicamente l’accordo sulla spartizione del petrolio o un semplice atto intimidatorio. Oltre ai problemi citati prima, in ballo ci sono anche tutta una serie di questioni interne al governo nordsudanese. Il presidente al-Bashir sembra favorevole all’indipendenza del Sud – ha partecipato alle cerimonie ufficiali – ma potrebbe aver perso molto del suo potere, tanto da piegarlo al volere dell’esercito e delle fazioni di partito contrarie alla realtà del Sud Sudan. Tuttavia, la gestione dei proventi del petrolio (fino a gennaio era del 50%, ora è passata al 75% in favore del Sud) potrebbe presto essere ridiscussa. Infatti tutte le infrastrutture necessarie alla lavorazione e allo stoccaggio del greggio sono localizzate nel Nord, mentre il Sud è ricco di giacimenti ma sprovvisto di tecnologie. La relazione tra i due Stati è quindi molto interconnessa, il che rappresenta una buona opportunità per portarli alla collaborazione. Le future negoziazioni saranno comunque assai complesse e non mancheranno i rischi”.
Il Sud Sudan entrerà presto a far parte della Comunità internazionale. Quali prove lo aspettano?
“Innanzitutto, il governo di Juba dovrà mostrare di avere tutte le capacità per rispettare gli standard richiesti dagli organismi internazionali. La classe politica è formata in prevalenza da membri dello Splm e vanta una nutrita presenza militare. Viene da domandarsi, allora, se chi ha sempre combattuto sia in grado di preferire i rapporti diplomatici alle ragioni della guerra. Inoltre il Sud Sudan si colloca in un contesto molto complesso, caratterizzato da varie direttrici di conflitti, soprattutto in funzione delle divisioni tra le popolazioni arabo-musulmane e le classi dirigenti cristiane. La disgregazione dell’ex Sudan indebolisce un polo regionale che faceva da contrappeso a Etiopia e Kenya, dove negli ultimi anni è cresciuta la presenza di milizie fondamentaliste islamiche. Il nuovo Stato entrerà, a sfavore dell’Egitto, anche nella cerchia dei regimi che controllano i bacini del Nilo. Inoltre, avrà a che fare con la difficile situazione in Somalia e le guerre scoppiate lungo i confini con l’Uganda“.
Il governo guidato da Kiir riuscirà ad essere all’altezza della situazione?
“Fino allo scorso 9 luglio, lo Splam era l’unico partito di riferimento in Sud Sudan. Ma ora che l’indipendenza è un dato di fatto, il movimento dovrà affrontare molti problemi interni. Accade spesso nei paesi fragili, dove la democrazia non ha ancora attecchito. Il partito dominante era integrato in un contesto politico più vasto, ma ora rischia di frammentarsi. Sicuramente ci saranno alcuni gruppi che vorranno contestare le leadership politiche, già accusate di essere molto corrotte. I nuovi equilibri del Sud Sudan verranno probabilmente costruiti attraverso accordi di solidarietà tribale, ma è pur certo che la storia del paese è ancora tutta da scrivere”.