Per chi non è del mestiere, è difficile capire le dinamiche che muovono il denaro, che innescano la crescita o il declino economico di un paese, e che fanno tremare o esultare le borse mondiali. Alcune indicazioni per interpretare questi eventi possono derivare dalla ricostruzione delle tappe principali della storia economica dell’Occidente. Ne abbiamo discusso con Daniele Archibugi.
E’ possibile identificare alcune linee guida nell’evoluzione del pensiero economico nel ‘900?
La prima cosa da tenere presente quando si parla di economia è che la teoria economica si colloca in una determinata storia economica. E la storia economica di questo secolo si caratterizza per alcuni fattori che sono del tutto irripetibili.
Innanzitutto, si è avuto un tasso di crescita come non c’era mai stato nel passato, che, a sua volta, ha consentito un aumento della popolazione senza precedenti. Questo straordinario sviluppo si è basato su due elementi fondamentali. Il primo è l’utilizzazione sistematica della scienza e della tecnologia nella vita economica: in questo secolo, più che nell’‘800 e molto più che nel ‘700, la scienza e la tecnologia sono diventate fattori di produzione. E proprio in quanto fattori di produzione hanno consentito un aumento della produzione spettacolare. Il secondo elemento, connesso al primo, è stato l’allargamento dei mercati, l’internazionalizzazione, quella che oggi si chiama globalizzazione. Se nel passato esistevano comunità economiche fortemente localizzate, nel corso del secolo questa localizzazione è progressivamente sparita, e ci siamo mossi verso un’economia internazionale.
Queste tendenze, che hanno in qualche misura caratterizzato il ‘900, hanno creato anche numerosi problemi. Per esempio, soltanto un determinato gruppo di paesi ha conosciuto quello straordinario sviluppo del reddito a cui mi riferivo prima. Se consideriamo il prodotto interno lordo pro capite all’inizio dell’800 (vedi tab 1 e tab 2), notiamo che quasi tutti i paesi del mondo, forse con la sola eccezione dell’Inghilterra e della Francia, erano al livello di sussistenza o poco al di sopra di quel livello: non c’era una gran differenza nella condizione media di vita tra Germania, India, Cina o America Latina. Del resto, al di sotto di quel livello minimo di sussistenza, la popolazione moriva letteralmente di fame, semplicemente perché non c’era da mangiare per tutti. Invece, con l’utilizzazione sistematica della scienza e della tecnologia, nel corso di alcuni decenni certi paesi sono diventati ricchi, mentre altri sono rimasti ai livelli precedenti. E’ così che, anche dal punto di vista sociale, sono nate profonde disuguaglianze internazionali. Le disuguaglianze nazionali, tra le classi all’interno di ogni paese, ci sono sempre state, ma questo è un altro problema.
Questo è il quadro storico. Ma, in questo scenario, gli economisti cosa facevano?
Per tutto l’‘800, e fino alla fine della Prima Guerra mondiale, gli economisti hanno sostenuto che lo sviluppo economico si poteva ottenere solo dando libero sfogo alle forze del mercato. C’è sempre stata qualche gloriosa eccezione al di fuori del pensiero economico dominante, tra pensatori che, come sagacemente disse Keynes, popolavano “il sottomondo degli eretici”. Ma proprio perché abitanti del sottomondo, questi economisti erano assai poco ascoltati. Gli economisti ufficiali, quelli che invece venivano ascoltati dal Palazzo politico, sostenevano che bisognava ridurre al minimo l’attività regolatoria dei pubblici poteri, e lasciare che il mercato assolvesse alla funzione di regolare il livello della produzione. Non era un’idea del tutto errata: in quell’epoca nella maggior parte delle nazioni le decisioni principali, comprese quelle economiche, venivano imposte dal sovrano, e quindi la società civile, inclusa la società economica, era debole. A maggior ragione, gli economisti sostenevano la stessa politica a livello internazionale, pensando che per ottenere più ricchezza bisognasse attivare la liberalizzazione degli scambi, la quale a sua volta avrebbe consentito maggiore concorrenza e quindi aumentato l’efficienza del sistema produttivo. Un ragionamento che si basava sul fatto che nell’‘800 il solo paese che aveva conosciuto il decollo industriale, basandosi fortemente sulle forze del mercato, era l’Inghilterra, e dunque si pensava che tutti gli altri dovessero imitare quel tipo di modello.
Ma si arrivò a un punto in cui questo teorema cominciò a scricchiolare. Le forze del mercato non si dimostrarono più capaci di garantire il benessere e la crescita, e questo per una serie di fattori. Innanzitutto, il fatto che la politica comunque continuava ad avere un ruolo invadente, e che quindi quello che veniva predetto e predicato dagli economisti non veniva poi del tutto applicato nella realtà. Per esempio, l’Inghilterra stessa metteva in atto delle politiche protezioniste rigorosissime, al fine di evitare che le sue conoscenze tecnologiche venissero diffuse in altri paesi. Non dimentichiamo poi che gli Stati nazionali continuavano comunque a essere rivali. Riflettendoci bene, la Prima Guerra mondiale è qualcosa che nessun economista liberale o liberista avrebbe mai potuto spiegare: per quale ragione dei paesi che si arricchivano a vicenda sulla base del reciproco commercio dovevano entrare in un conflitto del tutto insensato, visto che non c’erano neppure forti conflittualità ideologiche? Esistevano ovviamente motivi economici, ma questi provocavano l’effetto opposto di quello che avevano predetto i fautori del libero commercio. Infatti, i sostenitori del libero scambio sostenevano che la concorrenza tra imprese avrebbe avvicinato i popoli, perché tutti avevano da guadagnare da un sano agonismo economico. Alcuni non vollero rendersi conto, per esempio, che nella rivalità commerciale anglo-tedesca della “belle époque” si poteva annidare un conflitto. Invece, purtroppo, l’agonismo economico si trasformò in antagonismo militare, e gli Stati entrarono in guerra per sostenere le ragioni delle loro imprese.
Il secondo fattore da tenere presente è che il conflitto tra le classi sociali all’interno dei paesi diventava sempre più evidente, e le classi lavoratrici cominciavano a richiedere la tutela dei propri diritti, una rivendicazione che non era compatibile con i principi del liberismo, e che anzi arrivò a mettere in crisi la stessa stabilità sociale. Durante la Prima Guerra mondiale scoppiò una rivoluzione – la Rivoluzione d’ottobre – che portò al potere delle forze politiche del tutto diverse da quelle che governavano gli altri paesi europei. Questo spiega perché, secondo lo storico inglese Eric Hobsbawm il “secolo breve” inizia nel 1914, con questi “torbidi” che le potenze vincitrici non riescono a gestire. Infatti, dopo la Prima Guerra mondiale, una volta tornata la pace sarebbe dovuto tornare anche il libero scambio. Invece, quella crescita spettacolare che ci fu in Europa dal 1870 (dalla fine della guerra franco-prussiana) al 1914 non si reinnestò più. Le potenze occidentali non si trovavano d’accordo, i tassi di disoccupazione cominciavano a essere molto elevati, e si arrivò, dopo un decennio, alla grande crisi del ‘29, un evento imprevedibile e imprevisto dalla teoria economica dominante: disoccupazione, prezzi che calano, drastica riduzione delle attività produttive.
Proprio in questo periodo cominciarono a maturare in ambito economico idee molto diverse da quelle dominanti nel periodo ante guerra. In particolare, andava prendendo forma l’ipotesi che per sostenere l’attività economica fosse utile, se non necessario, un intervento dello Stato. Non che prima l’intervento dello Stato mancasse, c’era eccome, ma non era teorizzato: veniva tollerato sulla base di considerazioni empiriche. Invece, a seguito della crisi degli anni ‘30, venne teorizzato un intervento dello Stato che stimolasse la società civile a generare reddito, prosperità, ricchezza. E’ quello che successe con l’economia keynesiana.
John Maynard Keynes pubblicò il suo libro The General Theory of Employment Interest and Money nel ‘36: fu uno spartiacque che, dimostrando le ragioni per cui è necessario sostenere l’intervento pubblico, obbligò la teoria economica a riflettere su sé stessa. Secondo Keynes, infatti, le decisioni dei privati, soprattutto per quanto riguarda gli investimenti, sono troppo fluttuanti perché condizionate da una grande volatilità delle decisioni private. Per questo è necessario un intervento pubblico.
E’ quello che avvenne immediatamente dopo in Europa (negli Stati Uniti era un fenomeno simile si era già avuto con il New Deal a partire dal ‘33) quando vennero fatti ingenti investimenti per la guerra. Si trattava di creare le armi per combattere un’altra guerra mondiale. Questo portò la Germania, pochi anni dopo l’ascesa di Hitler, a raggiungere per prima la piena occupazione dopo la crisi, seguita da tutti gli altri paesi europei e dagli Stati Uniti. La spinta esterna proveniente dallo Stato funzionava come una droga nell’economia. Certo, non era l’industria bellica quella che auspicava Keynes, il quale parlava invece di ferrovie, o – come provocazione – della costruzione di piramidi che avrebbero creato nuovi posti di lavoro e dunque salari da spendere in beni di consumo. Però le cose andarono esattamente come egli aveva previsto, anche se l’economia si riprese non perché venne prodotto qualcosa di inutile come le piramidi, ma qualcosa di dannoso come gli strumenti di guerra.
La grande lezione del ‘29 venne capitalizzata appena terminata la guerra. Nel ‘44, durante la Conferenza di Bretton Woods per l’assetto monetario-economico, dove Keynes era a capo degli economisti inglesi, venne adottato il sistema monetario internazionale basato su cambi fissi in relazione al dollaro: da allora, sul piano monetario internazionale, c’è stato un sistema regolato. Anche dal punto di vista interno i singoli Stati cominciarono a regolamentare l’attività economica: nacquero i primi sistemi pensionistici, i sistemi sanitari, l’educazione pubblica e così via. Tutto questo porterà le nazioni occidentali negli anni ‘50 e ‘60 ad avere i tassi di sviluppo economico più sostenuti di tutta la storia dell’umanità. Quella che viene definita “età dell’oro” deriva proprio da politiche di tipo keynesiano, dove il reddito del lavoro aumenta, i diritti sociali cominciano a imporsi, esiste un’economia di mercato ma ben sostenuta dai poteri pubblici. Tutti traguardi raggiunti a dispetto dell’ideologia liberista.
Quando nel 1971 il presidente Nixon dichiarò che il dollaro non era più convertibile in oro, e dunque la moneta diventava carta straccia, si produsse una serie di fattori a catena (crisi petrolifera e così via) che avrebbe in breve fatto dimenticare quel tasso di sviluppo economico che aveva contraddistinto gli anni ‘50 e ‘60. Soltanto negli anni ‘80, con Margaret Thatcher in Inghilterra e con Ronald Reagan negli Stati Uniti si innescherà di nuovo una reazione, all’insegna del conferimento di un ruolo più ampio al mercato. Probabilmente questa reazione era anche giustificata delle inefficienze dovute all’economia pubblica: la pressione fiscale era aumentata senza che fosse sempre chiaro chi ricevesse benefici dalla spesa pubblica, la sproporzione tra i lavoratori del settore pubblico e quelli del settore privato, soprattutto dal punto di vista del carico di lavoro, creava scontenti. Tutto questo ha portato a una reazione liberista, che più o meno tardi si è diffusa in molti paesi. E nei paesi dove la cura è stata più severa, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, ha dimostrato di avere una notevole efficacia, come testimonia il rilancio economico piuttosto sostenuto che è oggi sotto i nostri occhi. L’economia americana sta ora crescendo a tassi molto maggiori di quelli europei, dove politiche liberiste così spinte non sono state mai applicate.
Come è possibile spiegare questa specie di “respiro”, questa alternanza quasi fisiologica nell’economia recente tra liberismo e intervento dello Stato?
C’è chi sostiene che i sistemi economici, per risollevarsi, abbiano bisogno di forti scossoni, addirittura dell’invasione di un paese straniero, di una rivoluzione o cose del genere. Joseph Schumpeter parlava di “distruzione creatrice”, Mancur Olson della necessità di colpire le corporazioni o gli interessi costituiti. Si tratta di un modo, seppure drastico, di spazzare via i gruppi di potere consolidati e di riavviare la macchina dello sviluppo economico. In questo senso, sia la rivoluzione statalista che la rivoluzione liberista sono stati dei mezzi per sgombrare il campo, per potare l’albero dell’economia e farlo ricrescere. Il problema di fondo è che queste “potature” comportano costi sociali ed economici molto alti, in termini di perdita di posti di lavoro, insicurezza e così via.
E’ allora giusto chiedersi: come è possibile avere un sistema economico nel quale questi assestamenti avvengano in modo cooperativo e non conflittuale? Questo è il problema di fondo. Ci troviamo in un mondo in continua evoluzione, in senso quantitativo e qualitativo, e contemporaneamente ci sono delle resistenze sociali: si tratta di vedere come queste possano essere superate.
E’ questo il compito che oggi si trova a dover affrontare l’economista?
La sfida dell’economia prossima ventura è tutta qui: innanzitutto, occorre individuare chiaramente i vantaggi e gli svantaggi della trasformazione dell’economia in senso liberista o statalista. In secondo luogo, bisogna sapere quali sono i soggetti che devono decidere. Nei paesi democratici, che sono anche i paesi più ricchi, vige il sistema della partecipazione consensuale e non conflittuale ai processi decisionali. Il consenso però è lento, poiché si basa sul raggiungimento di una mediazione di interessi diversi. D’altra parte, e questo è un altro aspetto cruciale, non è affatto detto che le forze di mercato sappiano meglio di quanto sappia un sistema politico quale sia il bene sociale. Le forze di mercato sono potentissime quando si tratta di raggiungere uno sviluppo quantitativo del sistema economico, ma non ci sono “prove” storiche a dimostrazione del fatto che queste forze sappiano anche garantire il bene societario.
Questa alternativa tra pubblico e privato è una novità di questo secolo?
Sì, per il motivo che sia il pubblico che il privato, così come noi li concepiamo oggi, sono in gran parte una novità di questo secolo. E’ una novità, per esempio, il fatto che ci sia un intervento pubblico “di servizio” e non “di dominio” nell’economia di un paese. Una volta, infatti, la spesa pubblica era connessa al dominio del principe, e si traduceva sostanzialmente in spese per le forze armate, oltre a quelle destinate direttamente al mantenimento della Corte. Quello che rimaneva per le spese cosiddette sociali (le strade, gli ospedali, le scuole) era una somma residuale. Quindi il pubblico, inteso in senso moderno, è senz’altro un fenomeno recente. Anche il “privato”, inteso come l’affermarsi delle forze di mercato, nasce con il capitalismo, che non ha più di due secoli di storia. Ma, attenzione, noi qui non parliamo di opposizione pubblico-privato: in questo secolo c’è stata una compresenza del pubblico e del privato, perché, come diceva Luigi Einaudi – un liberista convinto – la prima condizione per far funzionare il mercato sono i Carabinieri che impongono il rispetto delle regole. Quindi non esiste mercato senza polizia, senza magistratura, senza istituzioni.
Quello di cui stiamo ora discutendo è come debba essere assortita la presenza delle forze di mercato e di quelle dello Stato nella vita economica. Per esempio, se l’istruzione debba essere pubblica o privata, se la pressione fiscale debba essere del 20, del 40 o del 60 per cento. In definitiva, immaginare quale debba essere la funzione dello Stato come ridistributore di beni e servizi. La sfida economica che abbiamo di fronte è trovare la formula giusta per la gestione di quella “zona grigia” – la sanità, l’istruzione, i servizi pubblici – che può essere di competenza sia del pubblico che del privato, e di introdurre meccanismi competitivi, non strettamente di mercato, che siano di garanzia per la società.