Attenti al buco. O, più precisamente, ai pattern di buchi: alveari, schiuma del cappuccino, bolle di sapone, baccelli dei fiori di loto. La cui vista, a quanto pare, può diventare insopportabile fino a generare vere e proprie crisi di panico. È quello che sperimenta chi soffre di tripofobia, ovvero, per l’appunto, di un’immotivata e violenta paura dei buchi (trypo, in greco, vuol dire foro): in generale, il soggetto tripofobico non tollera la vista di buchi molto vicini tra loro e di una certa profondità, come nel caso delle bolle di sapone l’una attaccata all’altra o delle celle di un alveare, e può arrivare a provare forti mal di testa o attacchi di panico. Al momento, non è (ancora) un disturbo ufficialmente riconosciuto – infatti il Diagnostic and Statistical Manual della American Psychiatric Association (Dsm-5), la bibbia della psichiatria, non ne fa menzione – ma l’evidenza aneddotica suggerisce che sia un fastidio che colpisce parecchie persone in tutto il mondo. Tanto che negli ultimi anni la tripofobia è stata oggetto di diverse ricerche scientifiche, che ne hanno cercato di indagare cause e caratteristiche. Ecco un riassunto di quello che abbiamo imparato.
La scoperta della tripofobia
Quella della paura dei buchi è una storia relativamente recente, e la sua genesi è simile a quella di molte leggende metropolitane. L’episodio che indusse per la prima volta a parlarne risale al 2003, quando cominciò a circolare in rete la storia di una donna che, tornata da un viaggio in Sudamerica, si era scoperta infetta da una specie di larve che le avevano lasciato dei buchi permanenti su una mammella. A corredo del racconto un’immagine (artefatta, ma effettivamente piuttosto inquietante) che rappresentava un fiore di loto, con i suoi tipici baccelli simili a fori, sovrapposto a un seno femminile e che suscitava, in molti degli utenti che la guardavano, sintomi come pelle d’oca, prurito, brividi, nausea, giramenti di testa e “una generica sensazione di disagio”. Due anni più tardi fu tale Louise, una blogger irlandese – previa consultazione con gli esperti dello Oxford Word and Language Service – a coniare il termine tripofobia per descrivere il fenomeno. Complice la rete, sempre più persone cominciarono a riconoscersi nei sintomi: nacquero forum, gruppi di discussione online e una pagina Facebook. Poi, finalmente, anche la scienza cominciò a interessarsi al fenomeno.
Cosa è la paura dei buchi e cosa la provoca
Uno dei primi lavori pubblicati risale al 2013 e porta le firme di Geoff Cole e Arnold Wilkins, due esperti della University of Essex. “Le fobie”, scrivono gli autori nell’abstract del lavoro, “sono di solito descritte come paure irrazionali e persistenti di determinati oggetti o situazioni, e la causa di tali paure è spesso difficile da identificare. In questo articolo descriviamo una paura bizzarra ma comune, la tripofobia, finora non riportata nella letteratura scientifica. Chi ne soffre non tollera le immagini dei buchi”. I due scienziati hanno analizzato nel dettaglio diverse immagini che inducono tripofobia, caratterizzandone quantitativamente il livello di contrasto e la frequenza a cui si ripete il pattern, arrivando alla conclusione che la paura sarebbe una sorta di “riflesso inconscio” basato su un meccanismo di repulsione biologica, dal momento che tali immagini hanno caratteristiche simili a quelle, per esempio, che ritraggono animali velenosi come serpenti, scorpioni e ragni. Secondo Cole e Wilkins, dunque, la tripofobia avrebbe una base evoluzionistica e costituirebbe una specie di forma di difesa inconscia rispetto a possibili pericoli provenienti dall’ambiente circostante.
“Il nostro studio”, spiega Cole, “suggerisce che probabilmente guardando queste immagini si attiva una parte del cervello che provoca la stessa reazione che si avrebbe guardando un animale velenoso o comunque pericoloso. Ognuno di noi ha probabilmente tendenze tripofobiche, anche se non ne siamo a conoscenza: infatti dai nostri esperimenti è emerso che anche le persone che non presentano esplicitamente la fobia gradiscono comunque meno le immagini a contenuto tripofobico rispetto alle altre. Questo supporta la teoria secondo la quale siamo ‘programmati’ per avere paura di ciò che ci ha danneggiato nel nostro passato evolutivo”.
Paura o disgusto?
Ma c’è anche chi la pensa un po’ diversamente. Nel 2016 Meghan Hickey, della Scolarly Inquiry and Research alla Emory University di Atlanta, ha condotto una serie di esperimenti per comprendere se le reazioni di soggetti tripofobici avessero le caratteristiche fisiologiche di altre fobie note – le paure, in genere, sono innescate e regolate dal sistema nervoso simpatico – o se, piuttosto, avessero più a che fare con il disturbo. Un dubbio tutto sommato legittimo, dal momento che di solito chi manifesta una reazione avversa alla visione di gruppi di buchi non dice di provare una vera e propria paura, ma tende a qualificare le immagini come repellenti, dichiarando di sentirsi nauseato dalla loro visione. “Per questo motivo”, ha spiegato Hickey, “stabilire se la tripofobia rientra realmente tra le fobie o se si tratta solo di una repulsione potrebbe permettere di affinare una terapia cognitiva per il suo trattamento”. Per condurre la ricerca, Hickey si è servita della strumentazione dell’Emory Spatial Cognition Laboratory per monitorare le reazioni oculari di alcuni volontari, ai quali sono state sottoposte delle immagini simili a quelle presenti nello studio pubblicato tre anni prima da Cole e Wilkins.
Analizzando i risultati dell’esperimento, Hickey ha notato che quando le immagini presentavano minacce reali, come serpenti e ragni, le pupille dei volontari si dilatavano (un meccanismo fisico involontario associato alla paura); immagini neutrali, come quelle di scarpe o altri oggetti di uso quotidiano, non generavano alcuna risposta; immagini di buchi dalle colorazioni simili a quelle degli animali velenosi, infine, generavano un restringimento delle pupille dei volontari. Il che fa ipotizzare che effettivamente la tripofobia potrebbe essere una reazione di disgusto più che una paura stricto sensu.
Una spiegazione matematica
Nel 2016 Arnold Wilkins, psicologo alla University of Essex, ha formulato un’altra ipotesi per spiegare la genesi e la natura della tripofobia. Tirando in ballo addirittura la matematica. Secondo Wilkins, la somiglianza delle immagini che scatenano la paura (o il disgusto, come dicevamo) con quelle di serpenti e altri animali velenosi è troppo debole per giustificare l’insorgenza di una reazione di repulsione così forte. Il vero motivo, dice lo scienziato, sarebbe invece da ricercarsi nella regolarità dei pattern che si ripetono nelle immagini incriminate: “Immagini di questo tipo”, spiega, “hanno proprietà matematiche che causano disagio, male agli occhi o mal di testa a chi le guarda. Questo accade perché il cervello non riesce a processare i pattern in modo efficiente, e quindi richiede improvvisamente più ossigeno: uno sforzo inutile che mette a disagio l’osservatore”. E gli suggerisce, inconsciamente, di distogliere lo sguardo.