Trivelle, cosa succede in Puglia?

La Puglia chiama, l’Europa risponde. Nel gennaio scorso, 40 eurodeputati avevano promosso un’interrogazione per chiedere di “riesaminare urgentemente gli aspetti legislativi per vietare ricerche offshore nelle zone turistiche e a forte vocazione peschereccia”, e portando così in Commissione la protesta di enti e cittadini pugliesi contro le trivelle nell’Adriatico. Secondo i firmatari, le tecniche utilizzate in fase di prospezione sono dannose, e va verificata la conformità delle operazioni offshore alle direttive europee per la salvaguardia ambientale. La risposta di Bruxelles è arrivata proprio in questi giorni dalla penna del Commissario all’ambiente Janez Potočnik: l’Ue, nel rispetto dell’autonomia dei singoli Stati, promette vigilanza e sanzioni nel caso di mancato rispetto della normativa europea in tema di valutazione dell’impatto ambientale.

Sebbene il Decreto liberalizzazioni, diventato legge, non contenga più le cosiddette norme “sblocca trivelle”, la corsa all’oro nero nei nostri fondali non si ferma. Anzi, il governo sembra puntare su questo modello di sviluppo e entro sei mesi emanerà un nuovo decreto “al fine di favorire nuovi investimenti di ricerca e sviluppo delle risorse energetiche nazionali strategiche di idrocarburi” (art. 16). Stando ai dati del Ministero dello sviluppo economico sono 66 le concessioni di coltivazione in mare, per un totale di quasi 9 mila kmq, e 25 i permessi di ricerca rilasciati per quasi 12 mila kmq. In più, altre 43 istanze di ricerca sono già in fase decisoria e di Valutazione di impatto ambientale (Via), concentrate soprattutto nel basso Adriatico e nel canale di Sicilia (vedi Galileo: Trivelle nel fu Santuario marino), in tratti di mare di particolare pregio naturalistico e ambientale.

Da qui le proteste dei territori coinvolti (vedi Galileo: Basilicata, no alle trivelle vicino all’ospedale). La Puglia, che ha nel mare il suo fiore all’occhiello, ha chiesto una moratoria delle trivelle e, insieme a cittadini e associazioni, si è schierata contro le autorizzazioni all’esplorazione di idrocarburi concesse nel 2011 alla Northern Petroleum (Np) nell’area di Monopoli-Ostuni-Brindisi e contro le altre istanze in giacenza dell’azienda per oltre 6.000 kmq, da Bari a Santa Maria di Leuca. Un’area, secondo l’organizzazione Oceana, limitrofa a siti importanti per la conservazione dell’habitat marino e delle specie che vi transitano, come la tartaruga caretta caretta, balene e cetacei, inclusi gli zifi, le stenelle striate, i tursiopi. “La Northern Petroleum ha ricevuto dal Ministero per lo Sviluppo Economico l’autorizzazione a effettuare le esplorazioni petrolifere e il Ministero dell’Ambiente è stato interpellato per pronunciarsi in materia di compatibilità ambientale”, ha spiegato a Galileo il ministro dell’Ambiente Corrado Clini. “I permessi sono stati concessi in osservanza delle norme che vietano le attività di ricerca, di prospezione e di coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi in mare all’interno del perimetro delle aree marine e costiere a qualsiasi titolo protette nonché nelle zone di mare poste entro 12 miglia marine dal perimetro esterno delle suddette aree marine e costiere protette e, per i soli idrocarburi liquidi, nella fascia marina compresa entro 5 miglia dalle linee di base delle acque territoriali lungo l’intero perimetro costiero nazionale”.

Questo tuttavia non placa gli animi. Cittadini e associazioni temono gli effetti delle esplorazioni sull’ecosistema e sulle attività di pesca e turismo, come si evince anche dal ricorso al Tar Lazio contro la Via rilasciata alla Petroceltic al largo delle Isole Tremiti. “In questa prima fase le aziende ispezionano i fondali con una serie di esplosioni di aria compressa, definite air gun, per stimare la presenza e la qualità di eventuali giacimenti”, spiega Fabrizia Arduini, del Wwf Zona Frentana Costa Teatina. Gli effetti di questa metodica sulle specie marine, in particolare sui cetacei, sono stati spiegati da Maria Rita D’Orsogna, docente alla California State University (Northridge) ed esperta di petrolio e gas, nelle osservazioni relative alle istanze n.149 e n.71 della Np: “Nel sottofondo marino vi sono in generale molti suoni, e il limite considerato accettabile per garantire la sicurezza del pescato e delle altre specie marine è di circa 180 decibel… Il livello di espansione del suono dipende molto dal tipo di fondale, e in alcune condizioni le onde dell’air gun possono riverberare in modo da dare origine a un suono continuo confondendo gli animali”.

Altri rischi vengono dalle perforazioni. “Pensiamo ai fenomeni di ingressione marina, erosione e subsidenza, l’abbassamento verticale della superficie terrestre correlato anche alle attività estrattive. In questa fase poi le compagnie utilizzano speciali fluidi e fanghi perforanti per portare in superficie i detriti”, spiega ancora Arduini. Non se ne conoscono le composizioni, in quanto le compagnie petrolifere tengono segrete le proprie formule, come si legge in una nota del Wwf Abruzzo sui permessi alla Np, ma sono tossici e difficili da smaltire in modo sano. Uno studio condotto dal Gesamp, consorzio creato e gestito con Unesco, Fao, Onu e Oms, stima che un tipico pozzo esplorativo scarichi fra le 30 e le 120 tonnellate di sostanze tossiche durante tutto l’arco della sua breve vita, intenzionalmente o accidentalmente. Se si considera che in Italia sono stati perforati più di 1.600 pozzi solo in mare, si legge nel rapporto del Wwf “Milioni di regali. Italia: far west delle trivelle”, si può valutare che sia stata sversata una quantità di sostanze tossiche che varia tra più di 48 mila e le oltre 195 mila tonnellate.

Non vanno poi dimenticati i rischi di perdite e di incidenti. “Il Mediterraneo ha una percentuale di idrocarburi disciolti altissima, si parla di 100-150 mila tonnellate di petrolio ogni anno, esclusi gli incidenti, e si registra già oggi la maggiore densità di catrame in mare aperto del mondo”, aggiunge Arduini. Anche le distanze previste dal Dlgs 128/2010 (9 km da riva, che salgono a 22 nel caso di aree protette), appaiono poco rassicuranti rispetto ai 160 km della California, i 200 della Florida e i 50 in Norvegia. “I progetti delle aziende vengono valutati come unici anche quando la stessa società ne ha molti contigui. L’impatto però si valuta considerando tutto: vicinanza ad altre piattaforme, numero di pozzi, specificità del luogo, presenza di altre fonti inquinanti”, conclude Arduino. “Per questo bisogna rafforzare i controlli del Comitato Via in fase di rilascio di permessi e concessioni e monitorare per tutta la durata delle attività. In Norvegia gli organi di controllo funzionano e possono far visita alle petroliere all’improvviso. Da noi, nel caso dei controlli alla Ombrina Mare in Abruzzo, risulta che la Capitaneria di Porto ha dovuto fare una richiesta scritta e circa due settimane dopo è potuta salire a bordo insieme all’associazione MareVivo”.

Il prezzo a carico dell’ecosistema marino, dunque, è altissimo e sproporzionato rispetto alla convenienza di questa scelta energetica: il petrolio estratto è di scarsa qualità, dicono le associazioni, e non sufficiente a rispondere alle esigenze del paese. Nel 2010 ne sono state estratte poco più di 5 milioni di tonnellate, di cui 700 mila a mare, pari al 7% dei consumi totali nazionali di greggio. Il Ministro dell’Ambiente Clini, tuttavia, è convinto della necessità di proseguire su questa strada: “L’Italia è un paese fortemente dipendente dall’estero in materia energetica e in tal senso ritengo che tutto quello che si riesce a produrre in materia di idrocarburi vada considerato importante a prescindere dalla qualità del greggio estratto”. E sulla questione sicurezza e tutela ambientale aggiunge: “La Commissione Europea ha diffuso una comunicazione relativa alle iniziative che si svilupperanno per fronteggiare le sfide per la sicurezza delle attività offshore concernenti gli idrocarburi. Presumibilmente, sarà attivata entro il 2012 la procedura per la definizione di una possibile direttiva europea a riguardo. Il Ministero dell’Ambiente sostiene e segue con attenzione questa iniziativa alla quale è determinato a contribuire in modo sostanziale. Infine, il 24 marzo 2011 è entrato in vigore il protocollo offshore della Convenzione di Barcellona che prevede specifiche attività di tutela ambientale per prevenire, ridurre, combattere e controllare l’inquinamento risultante dalle attività di esplorazione, di sfruttamento, finalizzate all’estrazione delle risorse, comprese le attività di perforazione, di estrazione, di trattamento e stoccaggio, di trasporto a terra tramite condotte e carico di navi, la manutenzione, la riparazione e le altre operazioni ausiliarie nonché le attività di ricerca scientifica relativa alle risorse del fondo marino e del sottosuolo”, spiega Clini. “Il mio Ministero, di concerto con il Ministero dello Sviluppo Economico, sta provvedendo alle attività per il recepimento del protocollo nell’ordinamento italiano, considerandolo una vera e propria priorità per il 2012”.

Credit per l’immagine: Strocchi / Flickr

1 commento

  1. Grazie per questo pezzo, mi ha fatto avere un quadro della situazione più chiaro. È possibile risalire a quali parlamentari ha votato questo scempio?

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