Le generazioni che ci hanno preceduto la conoscono bene: ma fino a qualche decennio fa la consideravamo quasi estinta, tanto da chiudere o riconvertire quelle strutture preposte alla sua cura, i cosiddetti sanatori. Stiamo parlando della tubercolosi, malattia infettiva causata dal Mycobacterium tuberculosis – un batterio gram positivo chiamato anche Bacillo di Koch – che ora invece si sta diffondendo nuovamente: a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, in particolare, si è osservata, in Italia come negli altri paesi industrializzati, una sua lenta e progressiva ripresa. Oggi l’Organizzazione Mondiale della Sanità la ritiene la malattia infettiva più diffusa a livello mondiale (dati 2016). Ogni anno si verificano nel mondo 9 milioni di nuovi casi e 1,5 milioni di morti. Nella regione Europea, sempre secondo l’OMS, i paesi con il maggior numero di casi in assoluto sono la Russia (130000) e l’Ucraina (44000), quelli in cui l’incidenza è più elevata per numero di abitanti sono la Moldavia ed il Khirghizstan. Molti i possibili motivi di questa riaccensione epidemica: la comparsa di bacilli resistenti alla terapia antitubercolare tradizionale, l’aumento dell’immigrazione dalle regioni ad alta endemia, cioè paesi dove la tubercolosi è molto diffusa, la coinfezione con l’HIV, e infine la scarsa efficacia del vaccino (effettuato con il bacillo di Calmette-Guerin, BCG) per la prevenzione della malattia.
Di fronte a questo nuovo allarme, tuttavia, le armi oggi disponibili appaiono spuntate. L’attuale terapia è basata sull’impiego di alcune molecole ormai “antiche”, come isoniazide, rifampicina, etambutolo, e poi, come seconda scelta, pirazinamide, streptomicina ed alcuni antibiotici fluochinolonici (ad esempio ciprofloxacina e ofloxacina). Ma negli ultimi 35 anni non è stato introdotto nella terapia clinica antitubercolare alcun principio attivo nuovo. I farmaci utilizzati sono relativamente efficaci e non privi di tossicità, sia acuta che cronica (fattore da non trascurare perché la cura per la TBC è spesso prolungata). Considerazione fondamentale: tutti gli antibiotici impiegati hanno dimostrato, in misura variabile, la possibilità di sviluppare farmacoresistenza: alcuni ceppi di Mycobacterium mostrano multifarmacoresistenza in maniera molto rapida.
Per questo la scienza va a caccia di nuove soluzioni. Una interessante possibilità sulla quale si sta orientando da anni la ricerca scientifica è l’impiego di olii essenziali contemporaneamente ad antimicrobici classici. Gli studi sono ancora condotti in vitro, ma molti laboratori stanno indagando su possibili interazioni, sia positive che negative, tra prodotti naturali ed antibiotici classici.
L’impiego dell’essenza di Timo (Thymus serpyllum L.), di Pino (Pinus sylvestris L.), di Lavanda (Lavandula angustifolia Miller), Basilico (Ocimum basilicum L.) e di altre specie da noi diffuse, sotto forma di suffumigi e pomate balsamiche, per combattere affezioni delle vie respiratorie fa parte del patrimonio di etnofarmacognosia della nostra penisola. Da sempre nelle tradizioni popolari, ma anche nella medicina accademica, queste piante sono considerate utili per contrastare bronchiti, tosse convulsa e anche tubercolosi.
L’interesse nei confronti degli oli essenziali per migliorare l’attività degli antibiotici di sintesi ha coinvolto molti enti di ricerca in tutto il mondo. Sono stati pubblicati recentemente, su riviste scientifiche internazionali, articoli condotti in Polonia, Sud Africa, Camerun, Tailandia, Laos, Cina e anche Italia, riguardanti oli essenziali che potrebbero essere impiegati come terapie di supporto agli antibiotici classici. I risultati fino ad oggi sono estremamente incoraggianti, anche se è evidente che sono necessari ulteriori studi e verifiche. Uno degli ostacoli principali rispetto a questo approccio è dato però dall’estrema variabilità della composizione quali-quantitativa degli oli essenziali. I componenti dell’olio essenziale possono infatti variare in funzione (a parità di specie, della varietà e del cultivar, e della parte della pianta utilizzata nell’estrazione, ovviamente) del clima, della composizione del suolo, dell’esposizione solare, dell’età della pianta e del periodo di raccolta (periodo balsamico della pianta). Quindi, per ottenere un olio essenziale di composizione costante si dovrà estrarlo, nelle stesse condizioni, dallo stesso organo della pianta, a sua volta cresciuta sullo stesso terreno, con le stesse condizioni climatiche e raccolta nello stesso periodo. Una sfida virtualmente impossibile per gli istituti di ricerca, di conseguenza la ripetibilità delle analisi è alterata.
A prescindere dall’impiego degli oli essenziali ottenuti da piante appartenenti alla flora mediterranea, dei quali si conoscono da secoli proprietà batteriostatiche e battericide, grande interesse per i ricercatori suscitano piante caratteristiche di altre aree geografiche, facenti parte dell’etnofarmacognosia di altre popolazioni. Molti sono gli studi riguardanti l’analisi delle proprietà antibatteriche di alcune piante utilizzate dalla medicina popolare per combattere le infezioni da Mycobacterium tubercolosis, condotti principalmente in quelle aree dove la malattia è particolarmente diffusa e dove la medicina tradizionale è più radicata, come Sud est asiatico, Africa meridionale, centro e sud America. In particolare, l’analisi della letteratura relativa alle piante utilizzate tradizionalmente come antitubercolari in Africa subsahariana mostra una netta prevalenza di studi e ricerche riguardanti specie appartenenti al genere Zanthoxylum. Questo è un genere della famiglia delle Rutaceae che comprende quasi 250 specie di alberi (sia caduci che sempreverdi) e arbusti nativi di aree temperate e subtropicali. Il nome sembra derivare dal greco ξανθὸν ξύλον, cioè Legno giallo. Sono piante diffuse principalmente nell’areale asiatico, nord americano, centro e sudafricano. Sicuramente la specie più utilizzata e lo Zanthoxylum piperitum. La sua bacca è chiamata “Pepe del Sichuan” ed è molto utilizzata in Asia come spezia. Il nome è dovuto al fatto che può ricordare all‘apparenza una bacca di pepe nero, ma tra le due spezie non vi è alcuna correlazione. Ovviamente la spezia cambia nome nei vari paesi: in Cina è conosciuto come huājiāo (花椒; letteralmente “pepe fiorito”) e con il nome, meno comune, shānjiāo (山椒; letteralmente “pepe di montagna”). In Giappone, invece, viene chiamato sanshō (山椒) da un riadattamento del termine cinese shānjiāo. In Nepal, dove è ampiamente utilizzato, è chiamato timur. In Europa, dove non è molto utilizzato, e in America è conosciuto con diversi nomi; il più comune dei quali è, appunto, pepe del Sichuan o fiore di pepe (dal nome cinese) oppure fagara (da Zanthoxylum fagara, pianta diffusa in Florida). Può trovarsi sui mercati anche, a seconda del paese di provenienza, con altri nomi: pepe cinese, pepe giapponese o sansho, pepe nepalese, pepe-limone indonesiano.
Molto utilizzato nella cucina orientale, il pepe del Sichuan ha un sapore particolare: non è pungente come il pepe nero o il peperoncino, ma, dopo il piccante, presenta un leggero aroma di limone e lascia in bocca un leggero intorpidimento. Nella cucina cinese si accompagna spesso allo zenzero e all’anice stellato. Viene utilizzato solitamente per piatti a base di pesce, anatra, pollo e con le melanzane fritte. Si può trovare anche come olio ottenuto per spremitura delle bacche utilizzato, assieme a zenzero, zucchero di canna e aceto di riso, nella preparazione dei tagliolini fritti. Lo Zanthoxylum piperitum è uno dei più importanti ingredienti delle cucina tibetana e bhutanese; viene utilizzato assieme ad aglio, zenzero e cipolla per aromatizzare piatti di carne, soprattutto carni suine.
Una specie altrettanto interessante è lo Zanthoxylum americanum, chiamato volgarmente “Albero del mal di denti” perché tradizionalmente utilizzato nelle infiammazioni del cavo orale. Uno studio del 2017, riguardante lo Zanthoxylum lepieurii evidenzia l’attività contro il micobactterio della pianta. La sua efficacia è stata verificata nei confronti di numerosi funghi patogeni, come Candida albicans, Cryptococcus neoformans e Aspergillus fumigatus, il che giustificherebbe l’ampio uso della proprietà antimicotica ed antibatterica di questa pianta da parte della medicina tradizionale di molti paesi. Tuttavia sono necessari ulteriori approfondimenti per verificare la reale efficacia antimicobatterica e la eventuale tossicità degli estratti di alcune piante, in particolare appartenenti al genere Zanthoxylum, nella lotta a questa sempre più diffusa malattia infettiva.