Erano i primi di ottobre del 1993 quando un gruppo di appassionati del Centro altamurano di Ricerche Speleologiche e del Club Alpino Italiano di Bari si calarono nella grotta Lamalunga vicino ad Altamura (Bari).Doveva essere una semplice spedizione di speleologi, invece fu una delle più straordinarie scoperte nella storia della paleontologia umana. In fondo a un tunnel di 60 metri, interamente ricoperto di formazioni calcitiche e incastonato nelle rocce carsiche della grotta, ma del tutto integro, fu scoperto uno scheletro umano dai tratti inconfondibilmente arcaici. Rimasti chiusi nel loro sarcofago di roccia per centinaia di migliaia di anni, i resti avevano però mantenuto uno straordinario stato di conservazione. Un’opportunità unica per studiare (e forse riscrivere?) alcune fasi importanti della storia del popolamento dell’Europa.
Una storia che affonda nella notte dei tempi e inizia attorno a un milione di anni fa. Forse addirittura prima, come sembrano testimoniare alcuni recenti ritrovamenti, quando i primi Homo erectus provenienti dall’Africa colonizzarono l’Eurasia. Molto tempo dopo, tra i 400 e i 100 mila anni fa, questi primi “europei” originarono una linea umana particolare che doveva finire con l’Uomo di Neandertal. Questa lenta trasformazione è documentata dai ritrovamenti di Atapuerca in Spagna e di Petralona in Grecia. L’uomo di Altamura è vissuto in una fase intermedia di questo ciclo. Se infatti la forma della faccia e della mandibola assomigliano già a quelle dei Neandertaliani, l’osso frontale, quello occipitale e le arcate sopraorbitarie ricordano invece forme più antiche.
Ma proprio perché si tratta di una scoperta eccezionale, l’uomo ritrovato ad Altamura presenta anche parecchi problemi. Da un lato è importante che il reperto possa essere studiato in ogni dettaglio, dall’altro ciò non deve compromettere il maestoso ambiente della grotta che lo conservato per millenni. Inoltre l’accesso al sito è difficile e pericoloso e il tempo ha depositato sulle ossa uno spesso strato di concrezioni che le hanno sì preservate, ma ne rendono difficile lo studio.
Insomma, fin dai primi giorni dopo la scoperta ci si rese conto che si era di fronte una sfida che avrebbe richiesto soluzioni tecniche all’avanguardia. Il 27 ottobre 1993 il Rettore dell’Università di Bari, considerata la difficoltà dell’impresa, auspicava in un comunicato: “una serena e vigorosa intesa tra i comparti istituzionali referenti (Ministero dei Beni Culturali, Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica e Municipalità di Altamura) che renda possibile la piena espressione dei rispettivi specifici ruoli. Rigorose pianificazioni metodologiche, assieme a ineccepibili credenziali scientifiche, rappresentano requisiti ineludibili per qualsiasi intervento sul fossile. E’ necessario inoltre che vengano garantite le forme più complete e più efficaci di partecipazione del territorio a questa sua ricchezza; in primo luogo l’informazione che permetta di coniugare gli interessi territoriali con la dimensione sovraregionale e sovranazionale dell’impresa scientifica”.
Seguendo questa linea l’Università di Bari e la Sovrintendenza archeologica della Puglia hanno iniziato a collaborare per avviare lo studio del sito e del reperto. Nello stesso spirito è anche la convenzione sottoscritta il 2 agosto 1995 tra il Ministero per i Beni Culturali e Ambientali e l’università barese. Un lungo lavoro preliminare in cui sono stati coinvolti anche esperti di livello internazionale ha permesso di individuare una soluzione ai problemi dell’uomo di Altamura. Per poter studiare il reperto senza però compromettere la sua integrità né quella della grotta, bisogna trasformarlo in un “museo dal campo”. Un luogo cioè in cui non è consentito l’accesso, ma dove il reperto può essere osservato, misurato e studiato grazie a telecamere e sensori che trasmettono i dati dalla grotta alla superficie.
Per questo l’Università di Bari ha varato il progetto Sarastro (dal nome del personaggio che nel “Flauto magico” afferma: ”..il nostro dovere è oggi di osservare…”) le cui soluzioni tecniche e prestazioni sono state presentate in occasione dell’ultima Fiera del Levante, che si è chiusa il 21 settembre scorso. Si tratta di installare nella grotta Lamalunga dispositivi per la visione, la misura, la telemetria, il rilevamento acustico che permettano a studiosi, tecnici o semplici visitatori di osservare il reperto come se fossero a pochi centimetri di distanza.
Le informazioni che si possono ottenere impiegando i mezzi tecnologici più moderni sono molte, anche senza ricorrere a interventi distruttivi. Se non si possono ottenere i calchi tradizionali è possibile, per esempio, realizzare copie fisiche delle ossa o del sito partendo dai dati raccolti dai sensori e utilizzandoli per avere riproduzioni stereolitografiche. L’impatto ambientale di queste tecniche è minimo dato che, una volta installate le apparecchiature, tutto viene controllato dall’esterno.
La grotta di Altamura con il suo scheletro completo e perfettamente conservato è un banco di prova ideale per le tecniche della paleoantropologia del futuro. Il progetto Sarastro consentirebbe inoltre agli specialisti e agli studiosi di avere tutti i dati sul reperto in “tempo reale” e pianificare al meglio gli interventi successivi. E permetterebbe anche di soddisfare la curiosità del pubblico per una scoperta tanto straordinaria. Ormai l’Università di Bari, la Soprintendenza Archeologica della Puglia, la Regione Puglia, la Provincia di Bari, il Comune di Altamura e l’Assessorato alla Cultura e Turismo per il Mediterraneo del Comune di Bari sono convinti dei vantaggi del progetto Sarastro e ne stanno verificando la possibilità di realizzazione concreta.