È una di quelle parole in piena emergenza da coronavirus in cui si ripone più speranza, seppur con uno sguardo che è necessariamente rivolto al futuro: vaccino. Uno strumento di prevenzione che possa contrastare la diffusione del coronavirus, istruendo il nostro sistema immunitario a combattere il virus. Se ne parla praticamente dall’inizio dell’epidemia, in maniera più insistente dalla metà di marzo, dicono le ricerche su Google, in concomitanza con l’avvio delle prime sperimentazioni nell’essere umano. Ma non lo abbiamo ancora e probabilmente non lo avremo per tanto tempo.
La maggior parte delle stime parla di un intervallo tra un anno e 18 mesi necessari per averne uno. E non mancano discutibili proposte per cercare di stringere il più possibile i tempi. Vero è che la ricerca nel campo è più che mai attiva. Ed è una ricerca che passa anche dall’Italia. L’Organizzazione mondiale della sanità periodicamente aggiorna la lista dei vaccini in fase di studio contro Covid-19: nell’ultima bozza sul tema, pubblicata appena prima di Pasqua, ne sono elencati almeno una settantina, tre in fase di sviluppo clinico, ovvero con sperimentazioni nell’uomo già avviate. Al momento è impossibile dire quali di questi diventerà il vaccino o i vaccini utili nella lotta al coronavirus e quando. Ma qualche timida riflessione su quello che ci aspetta possiamo tentarla.
Quello che appare chiaro sfogliando il documento è che non esiste un’unica strada nello sviluppo del vaccino, ma tante diverse strategie. Ci riferiamo alle diverse piattaforme usate dagli studi in corso per lo sviluppo di vaccino (qui un’approfondita analisi dei diversi tipi di vaccini dei National Institutes of Health americani). Alcuni studi si basano sull’utilizzo di virus inattivati, in cui si usa la struttura del virus ucciso per stimolare la risposta immunitaria, altri forme del virus attenuate, in cui il virus viene indebolito. Altri, tanti, tentano la via del vaccino a subunità, in cui solo un parte del virus viene usato per istruire il sistema immunitario, in genere quelle che si trovano esternamente al patogeno. Ma esistono anche altri aprocci in fase di studio, come quelli che usano particelle simil virali (Vlp, Virus like particle) o vaccini genetici, a rna o dna, che si basano sul trasporto diretto delle informazioni genetiche nell’ospite necessarie alla produzione degli antigeni. In alcuni casi i materiali genetici sono traghettati nelle cellule inglobati all’interno di vettori virali, come il virus del morbillo.
Se non è possibile a oggi dire quale tra quelli in fase di studio contro Covid-19 si mostreranno più efficaci, alcune strade sembrano più percorribili di altre, racconta a Wired Emanuele Montomoli, professore di igiene e sanità pubblica all’Università di Siena e Chief Scientific Officer di Vismederi, azienda che collabora allo sviluppo di vaccini, anche contro Covid-19 attraverso la Coalition for Epidemic Preparedness Innovations (Cepi), secondo quanto annunciato nelle scorse settimane. “L’attenzione della ricerca su un vaccino oggi è la stragrande maggioranza intorno alla proteina spike, sulla superficie del virus, quella che si attacca ai recettori ACE2 delle cellule umane – spiega l’esperto – Gli approcci messi in campo contro il coronavirus sono quelli tradizionali, ciascuno con i suoi vantaggi e svantaggi: per esempio con l’utilizzo del virus vivente attenuato si corre il rischio di generare dei sintomi ma può essere one-shot, mentre quelli inattivati possono comportare il bisogno di ricorrere a più somministrazioni consecutive”.
Anche l’approccio dei vaccini a subunità, in cui solitamente, con variazioni sul tema, si purificano alcune parti del virus per poi iniettarle, pone dei limiti. Che hanno a che fare, di nuovo, su quanto ancora poco sappiamo di Sars-Cov-2, e che per questo secondo Montomoli portano a guardare con più interesse ad altre piattaforme per lo sviluppo di vaccini: “Non sappiamo ancora se parliamo di un virus stabile o meno, ovvero se o quanto muterà, e questa incertezza spingerebbe a mettere in secondo piano i vaccini a subunità”. Non tanto per un discorso di potenziale efficacia, quanto per difficoltà tecniche relative alla produzione che potrebbero presentarsi: “Se scoprissimo per esempio che il virus muta spesso, con gli approcci a subunità dovremmo ricominciare da capo, ovvero: per produrre le componenti necessarie di questi vaccini sono necessarie colture cellulari, che siano uova o altro, in cui il virus si riproduce”.
Nel caso infatti ci trovassimo di fornte a un virus che muta sarebbe necessario allestire nuove colture cellulari, ricominciare da capo, spiega Montomoli: “Con vaccini genetici questo problema sarebbe davvero limitato: basta cambiare la sequenza genetica mutata, ed è possibile produrne grandi quantità senza particolari risorse”. In sostanza quello che Montomoli sottolinea è che i vaccini di ultima generazione, quali appunto quelli genetici, sono piattaforme più flessibili rispetto a quelle tradizionali, più adattabili a eventuali modifiche in corsa, man mano che si accumuleranno nuove conoscenze sul virus. Un messaggio che risuona anche dalla pagine di Nature Reviews Drug Discovery, nell’analisi sui vaccini in via di sviluppo sviluppata dal team di ricerca e sviluppo della fondazione Cepi per lo sviluppo di vaccini. “Le nuove piattaforme a base di dna o mRna offrono una grande flessibilità in termini di manipolazione antigenica e potenzialmente come velocità [di sviluppo, nda]”.
Nella loro analisi – che riguarda in realtà un numero più ampio di vaccini in fase di studio rispetto a quello indicato dall’Oms e cita anche un paio di sperimentazioni cliniche con cellule modificate con vettori virali come vaccini – gli esperti del Cepi esaminano non solo le diverse piattaforme, la distribuzione geografica degli studi (soprattutto in Nord America) ma anche gli attori che partecipano alla ricerca di un vaccino. La stragrande maggioranza riguarda progetti avviati da privati, e poco meno di un terzo sono quelli avviati da enti pubblici, università e organizzazioni non-profit. Non mancano grandi nomi dell’industria farmaceutica, affiancati però anche da realtà più piccole, continuano da Cepi, senza esperienza nella produzione su larga scala di vaccini. Quel che è certo, continuano, è che servirà uno sforzo coordinato, non solo da parte della ricerca, ma da parte di tutti, governo, regolatori. Uno sforzo globale, aveva rilanciato Seth Berkley della Gavi Alliance. “Lo sforzo globale di ricerca e sviluppo per un vaccino in risposta alla pandemia di Covid-19 è senza precedenti in termini di portata e velocità”, aggiungono gli esperti di Cepi, azzardando l’arrivo di un vaccino agli inizi del 2021, in linea con altre previsioni che arrivano da più fronti. Se tutto andasse bene, ripetono da più parti. Se tutti i test di sicurezza ed efficacia andassero come sperato, e il vaccino o i vaccini mostrassero di funzionare.
Capire se un vaccino funziona prevede, tra l’altro, capire in primis come il sistema immunitario risponde al virus. Qualcosa che oggi conosciamo solo in parte, aggiunge Andrea Cossarizza, ordinario di Patologia generale e Immunologia presso l’Università di Modena e Reggio Emilia. Cossarizza e il suo team si occupano proprio di capire come il sistema immunitario risponde al virus, analizzando per esempio il sangue dei pazienti ricoverati a Modena per polmoniti Covid-19. “Quello che abbiamo osservato che i linfociti dei pazienti, T e B, appaiono stanchi da un punto di vista funzionale – racconta a Wired Cossarizza – come ‘esauriti’ “. Al tempo stesso, va avanti l’esperto, quello che si osserva è un’ingente quantità di citochine, molecole che regolano la risposta immunitaria. “Quello che stiamo facendo è cercare di capire anche in che modo queste citochine influenzano per esempio la produzione di anticorpi e le cellule che producono gli anticorpi, ma più in generale stiamo cercando di capire qual è la risposta cellulo-mediata al virus”. Oltre a far luce sui meccanismi con cui il sistema immunitario risponde al virus, studi simili saranno fondamentali per capire se un vaccino funziona, conclude Cossarizza.
Via: Wired.it
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Credits immagien di copertina: NIAID-RML via Flickr CC