Un vaccino che sia realmente efficace contro la malaria ancora non esiste. Ma un nuovo passo verso la sua realizzazione è stato appena compiuto dai ricercatori del German Cancer Research Center che nel loro studio, apparso sulle pagine di Immunity, sono riusciti a identificare gli anticorpi che proteggono dall’infezione (finora nei topi), aprendo così la strada allo sviluppo di una nuova generazione di vaccini sempre più specifici (ricordiamo che un vaccino era stato approvato nel 2015 ma con scarsi risultati). Più precisamente, i ricercatori si sono concentrati su come il sistema immunitario risponde all’infezione naturale del protozoo del genere Plasmodium, il parassita che causa la malaria: analizzando le singole cellule immunitarie, hanno scoperto che il sistema immunitario produce anticorpi che sono protettivi contro l’infezionea e che, grazie a una sorta di memoria a lungo temine, può produrre nuovamente questi anticorpi quando necessario. Ma facciamo un po’ di chiarezza.
I parassiti del Plasmodium hanno un ciclo vitale molto complesso: durante una puntura di una zanzara (Anopheles, diverse specie) infetta, gli agenti infettivi vengono introdotti nell’ospite sotto forma di sporozoiti. Entro poche ore, gli sporozoiti infettano le cellule del fegato, dove maturano e si moltiplicano. Successivamente lasciano il fegato come merozoiti per invadere i globuli rossi. Qui si moltiplicano di nuovo, rilasciando nuovi merozoiti che, a loro volta, infettano altri eritrociti.
“Un vaccino dovrebbe innescare una risposta contro i cosiddetti sporozoiti, lo stadio parassitario che la zanzara trasferisce all’uomo”, precisa l’autrice Hedda Wardemann. “Se il sistema immunitario è in grado di distruggere l’agente infettivo in questa fase, prima che raggiunga il fegato, allora l’infezione viene bloccata fin dall’inizio”.
Nel loro studio, i ricercatori hanno utilizzato campioni di sangue di persone che vivono in un’area ad alto rischio di malaria. Dai campioni hanno isolato i linfociti B memoria, ovvero particolari tipi di linfociti B che si originano per la prima volta durante una risposta immunitaria primaria. In altri termini, il primo contatto che avviene tra un linfocita B e l’antigene è seguito nelle successive ore da uno stadio di raccolta delle informazioni necessarie alla sintesi dell’adeguato anticorpo. La cellula di memoria, in pratica, può sopravvivere anche per tutta la vita dell’organismo e continua a vagare in cerca dell’antigene: se entra nuovamente in contatto con l’agente infettivo, produce grandi quantità di anticorpi, prevenendo così un’infezione.
Dallo studio, i ricercatori hanno trovato queste cellule di memoria in quasi tutti i partecipanti, anche se in quantità molto piccole. Inoltre, hanno scoperto che un certo numero di cellule di memoria producono anticorpi in grado di proteggere alcuni topi dall’infezione di sporozoiti. Da qui, i ricercatori hanno analizzato le esatte sequenze di amminoacidi della proteina degli sporozoiti, bersagliate da questi anticorpi protettivi. “La quantità è semplicemente troppo piccola per stimolare sufficientemente il sistema immunitario”, spiega l’autrice, precisando che dopo l’infezione naturale si formano solo poche cellule di memoria in quanto solo piccole quantità di sporozoiti entrano nel sangue dopo una puntura infetta e, inoltre, scompaiono rapidamente nel fegato.
“Un vaccino efficace deve far sì che le cellule di memoria generino una risposta immunitaria estremamente potente, prima che gli sporozoiti scompaiano nel fegato”, concludono i ricercatori. “Per far sì che ciò accada, dobbiamo conoscere gli obiettivi della risposta immunitaria il più esattamente possibile. Con il nostro studio abbiamo raggiunto uno di questi obiettivi: le sequenze di amminoacidi degli sporozoiti contro cui sono diretti gli anticorpi protettivi possono servire come base per un nuovo vaccino”.
Via: Wired.it