“La fotografia è una piccola voce, al massimo, ma qualche volta, solo qualche volta, una fotografia o un gruppo di foto possono richiamare i nostri sensi verso al consapevolezza”. Così scriveva Wilbur Eugene Smith. E così devono aver pensato gli organizzatori della mostra “25 anni all’inferno: la storia dei Medici Senza Frontiere, in questi giorni a Roma.
Il percorso tra le foto esposte è duro e insieme commovente. Nelle immagini dei fotografi delle più famose agenzie del mondo si condensa l’esperienza di popoli lontani e diversi, ma accomunati dalla sofferenza. Scorrono sotto gli occhi i volti e i luoghi del Vietnam, Cambogia, Salvador, Nicaragua, Sudan, Etiopia, Mozambico, di quei paesi in via di sviluppo di cui questa parte del mondo, industrializzato o occidentalizzato, non si occupa se non quando le dimensioni delle tragedie non possono più essere ignorate. Un modo intelligente, quello offerto dall’esposizione, di ripercorrere la storia dell’associazione, interamente composta da volontari, attraverso il racconto fotografico degli interventi d’urgenza praticati sino ad ora in tutto il mondo in occasione di guerre o catastrofi naturali. Le immagini rendono evidente la drammaticità delle condizioni in cui questi medici agiscono e allo stesso tempo la speranza contenuta nei loro gesti essenziali che sanno salvare ciò che è possibile. Alle iniziative di Medici Senza Frontiere Galileo rende omaggio con una piccola galleria di foto selezionate tra quelle in mostra all’esposizione romana.
Ma testimonianza fotografica e umana si intrecciano anche grazie alle “Lettere senza frontiere”, contenute nel libretto in distribuzione alla mostra, che con coraggio alcuni medici hanno messo a disposizione. Leggendo le missive scritte dai medici in missione alle loro famiglie o ai loro amici, si tocca con mano tutta la difficoltà di chi ha coscientemente esercitato una scelta coraggiosa ma comunque costellata di paure e dubbi. Parte integrante della missione dei Medici Senza Frontiere, infatti, è la testimonianza della realtà vissuta e la denuncia della violazione dei diritti umani.
Questo evento diviene, allora, un’opportunità di riflessione. Fotografie e lettere sono lì a ricordarci che è reale anche ciò che non si vive in prima persona, che la distanza enorme, non solo geografica, che sembra separarci dai luoghi di guerra e sofferenza può essere colmata nello spazio breve di una mostra abbattendo con la testimonianza le frontiere geopolitiche.