Qualcuno ritira fuori dei dati della Nasa di oltre 30 anni fa, li passa al setaccio con un modello matematico e trova le prove dell’esistenza di forme di vita su Marte. Con le dovute cautele sui risultati, è esattamente quello che è successo a Giorgio Bianciardi, chimico, biologo ed esperto di sistemi caotici, docente di Astrobiologia all’Università di Siena, che ha condotto uno studio insieme a nomi ben noti a chi è dell’ambiente: Joseph Miller, neurobiologo dell’Università della California nonché ex direttore del progetto Space Shuttle alla Nasa, e Gilbert Levin, uno dei pionieri della ricerca di vita sul Pianeta Rosso.
Per capire su cosa si basano le affermazioni dei ricercatori bisogna tornare al 1976, quando la Nasa inviò due sonde su Marte, Viking 1 e 2, e vi fece atterrare due lander programmati per eseguire esperimenti di biologia. Erano previsti 3 test, tra cui quello chiamato Labeled Release (LR), ideato proprio da Levin. I lander raccolsero campioni di suolo marziano e lo mescolarono ad acqua contenente nutrienti e a un isotopo di carbonio (C14) radioattivo. Ed ecco perché: se quel suolo avesse contenuto batteri o altre forme di vita, queste avrebbero metabolizzato i nutrienti e rilasciato metano o anidride carbonica, anch’essi radioattivi (perché formati a partire dagli atomi di carbonio usato come tracciante).
L’esperimento ebbe esito positivo, come ha raccontato Miller a National Geographic: “ Nel momento in cui i nutrienti sono stati mescolati ai campioni di suolo, si sono sviluppate circa 10mila molecole radioattive – una grande differenza rispetto ai 50-60 eventi dovuti alla radiazione del suolo naturale su Marte”. Purtroppo, le altre prove non portarono alle stesse conclusioni. Ergo, la Nasa non prese più in considerazione i dati di LR. Ovviamente, la decisione non passò sotto silenzio, ma scatenò un dibattito che si è protratto fino a oggi.
Eccoci, ora, a un altro momento topico della vicenda: nel nuovo studio, apparso su International Journal of Aeronautical and Space Sciences, Bianciardi, Levin e gli altri hanno applicato ai dati delle missioni Viking un modello matematico che permette di sapere se un evento si deve a un processo metabolico (quindi legato a una forma di vita) o a un processo chimico-fisico. “Abbiamo trovato due gruppi nettamente distinti: in uno comparivano i dati degli esperimenti attivi (LR, nda) , nell’altro quelli dei 5 esperimenti controllo”, ha detto Miller. I dati sembrano anche confermati da ulteriori prove ripetute con campioni di terreno terrestre normale e sterile. Vuol dire che quel rilascio di molecole radioattive registrato più di 30 anni fa potrebbe davvero essere stato causato dal risveglio di microorganismi.
Non è sufficiente – ammettono gli stessi ricercatori – per affermare che c’è vita su Marte, ma di sicuro lo è per mantenere alte le aspettative per la prossima missione Curiosity.
via wired.it
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