Nel 2014 in Cile si segnalavano casi di trasmissione locale di un virus fino ad allora ritenuto uno sconosciuto patogeno lontano. Era marzo e nell’isola di Pasqua le autorità locali confermavano trasmissioni di Zika, un patogeno (genere Flavivirus) che si trasmette grazie alle punture di zanzare infette del genere Aedes, in modo particolare da Aedes aegypti nelle zone tropicali, isolato per la prima volta nel 1947 nella foresta Zika dell’Uganda. Alla fine dell’anno dopo tutto il mondo avrebbe conosciuto quel nome, in seguito alla notizia che in Brasile si stava osservando un preoccupante e apparente aumento dei casi di microcefalia nei neonati, in contemporanea della diffusione del virus. Parallelamente si andavano accumulando evidenze a sostegno della trasmissione verticale del virus, da madre a figlio e la sua rivelazione in presenza della malformazione. Quel virus, per lo più fino ad allora sconosciuto, cominciava a preoccupare (e non solo il Sudamerica), proprio perché quasi sconosciuto.
Nei mesi a seguire la paura di generazioni colpite da microcefalia – il legame con la condizione nei nati da madri infette è oggi per lo più riconosciuto dalla comunità scientifica, così come per la sindrome di Guillain-Barré – ha accelerato lo studio del virus, così come la caccia a trattamenti specifici, mentre le precauzioni, soprattutto rivolte alle donne in attesa o in cerca di un bambino nelle zone interessate si moltiplicavano. Oggi, a quasi un anno di distanza, cosa sappiamo in più di questo virus? Cosa hanno scoperto gli studi avviati in fretta dopo la notizia (talvolta inutilmente ingigantita) di un nuovo virus all’orizzonte?
La diffusione (come atteso) è aumentata
Dal Sudamerica il virus ha camminato, come lecito attendersi considerati scambi di merci e di persone in tutto il mondo e la diffusione di insetti vettori competenti (la conferma di zanzare infettate dal virus in Florida, dove si registrano casi autoctoni, è appena arrivata). Così, insieme ai casi importati, negli ultimi mesi diverse sono state le segnalazioni relative anche ai casi autoctoni di trasmissione del virus. La mappa elaborata dall’Ecdc mostra le zone interessate, con la notizia della conferma di circa un centinaio di casi di trasmissione locale del virus a Singapore. Con la conseguenza che, così come era accaduto per il Sudamerica, alcuni paesi – come Corea del Sud, Australia e gli Usa – sconsigliano alle donne in attesa o a chi è in cerca di un bambino di recarsi a Singapore.
Relativamente alle Americhe l’ultimo aggiornamento rilasciato dall’ufficio regionale dell’Organizzazione mondiale della sanità parla di 45 paesi e territori interessati dalla trasmissione locale del virus. Trasmissione operata sia da vettori che per via sessuale, possibile per il patogeno (non potendo escludere la trasmissione attraverso trasfusione l’Fda americano ha stabilito lo screening per Zika in tutto il sangue donato negli Usa). In tutti i paesi del Sud America si sta osservando una diminuzione dei casi, così come in Messico e in diversi paesi dell’America Centrale (ad eccezione di Saint Barthelemy e Porto Rico).
La lunga vita del virus
Seguendo l’evolversi della situazione, pressata soprattutto dal timore di possibili complicazioni più che dalle infezioni in sé che, lo ricordiamo, sono per lo più asintomatiche (anche se il contagio per gli adulti potrebbe non essere così innocuo come creduto), gli scienziati negli ultimi mesi hanno imparato a conoscere meglio la natura del virus (come la sua mappa 3D) e i suoi meccanismi infettivi. Così, per esempio, abbiamo scoperto che il virus potrebbe mantenersi in circolo più a lungo di quanto creduto. Una lettera pubblicata sul New England Journal of Medicine solo qualche giorno fa riporta il caso di un bambino – nato da madre con sospetta infezione in gravidanza di Zika, con diagnosi di microcefalia, inizialmente senza anormalità neurologiche ma con alterazioni cerebrali evidenziate dalla risonanza magnetica – in cui il virus è continuato a essere presente a due mesi dalla nascita, e che intorno ai sei mesi ha riportato un ritardo nello sviluppo neuropsicomotorio. Questo ha aperto alla domanda: Zika può danneggiare il cervello, e altri tessuti, anche dopo la nascita? Si può trattare solo di un ritardo nella comparsa dei sintomi? E ancora: è possibile, considerata la condizione di microcefalia e la sospetta infezione materna, che il virus possa persistere e nascondersi nei tessuti a lungo, così come accade nei testicoli? Infatti, se nella maggior parte dei casi la viremia associata a Zika dura intorno a una settimana, nel liquido seminale il virus è rintracciabile per mesi (e uno studio condotto sui topi ha appena mostrato che si riesce a replicare bene per giorni nella vagina).
Una ricerca sulla diffusione del virus nelle zanzare stesse ha invece appena confermato, in laboratorio, che le femmine di Aedes aegypti, il principale vettore di Zika, riescono a passare il patogeno anche alle uova e quindi alla progenie. A dimostrazione, in sostanza, che se si vuole combattere la diffusione del virus non basta agire sulla popolazione adulta di zanzare ma è necessario includere anche larvicidi. Perché la trasmissione verticale del virus, fornendo un meccanismo di sopravvivenza alle condizioni avverse, permette al virus di rimane in circolo più a lungo e uccidere solo gli esemplari adulti di zanzare non basta. Sebbene, precisino gli autori, la trasmissione verticale del virus vada confermata anche in natura.
Continua la corsa a vaccini e trattamenti
Lo scorso giugno era stato dato l’annuncio dell’inizio di uno studio clinico di fase I per un vaccino contro Zika a dna. La stessa azienda nei giorni scorsi ha annunciato l’avvio di un secondo studio sullo stesso vaccino, a Porto Rico, dove si è assistita a un’esplosione di casi negli ultimi mesi. Ma, sebbene accelerata dall’epidemia, la ricerca di nuovi farmaci e vaccini non è mai veloce. Per questo l’idea di alcuni ricercatori della Florida State University, della Johns Hopkins University e del National Institutes of Health è stata quella di passare in rassegna qualcosa di quanto esistente già, nella speranza d trovare composti attivi anche contro il virus. E qualcosa sembra essere davvero emerso, come raccontano dalle pagine di Nature Medicine. Tra i 6000 composti passati in rassegna (approvati e non) i ricercatori ne hanno così individuati alcuni in grado di bloccare la replicazione virale (come il niclosamide, un antielmintico usato per esempio contro le tenie) o il danneggiamento delle cellule neurali. Combinandone alcuni con diverse proprietà (neuroprotettivi e antivirali) l’effetto protettivo su precursori neuronali aumentava. Ma sebbene tutto questo dimostri che teoricamente la strategia di screening di molecole già esistenti o in fase di studio possa essere vincente, questi sono solo i primi passi: gli studi fatti in vitro vanno replicati nei modelli animali in futuro. E quindi passare alla fase clinica. Cortissima insomma la strada non è.
Via: Wired.it